Valpolicella, perché tutto quel legno?

18 gennaio 2014
[Angelo Peretti]
Serata a cena al ristorante. In tavola arrivano, in sequenza, un Valpolicella Superiore di un’aziendina premiata dalle guide, un Amarone “base” di un emergente (dico “base” perché ha anche un altro Amarone, che dovrebbe essere un cru o qualcosa del genere) e un Recioto della Valpolicella di una grossa realtà valpolicellese. Tutti e tre, per inciso, della zona Classica, quella storica. Ebbene, tutti e tre i vini sono segnati dal legno. Il primo, un 2010, asciuga, e man mano che passa il tempo, il vino si fa sempre più legnosetto - polvere di legno, segatura secca - nel calice. Il secondo, un 2009, il legno ce l’ha proprio impresso, e ne deriva un fastidioso finale amaro (nessuno gioco la battuta amaro-Amarone, per favore), e il fatto che sia giovane non è una giustificazione. Nel terzo, un 2006, il legno copre la dolcezza reciotista. Perché? Che senso ha? Io non sono riuscito a berli, nessuno dei tre, e - occhio - i produttori non erano di poco valore.
Capisco che i valpolicellesi guardano ben fuori Verona, ben fuori dall’Italia, perfino ben fuori dall’Europa continentale, ormai. Comprendo che chi è abituato a bere whisky non solo il legno non lo avverte come un problema, ma anzi lo ritiene magari un pregio, e dunque agli americani può piacere. Ma perché tutto questo legno a nascondere la bella ciliegia dei rossi della Valpolicella? Dov’è il territorio? Dov’è la classicità?
Domande probabilmente destinate a restare senza risposta. O meglio, la risposta è chiara: è il mercato, baby, che determina le scelte. Già.

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