[Angelo Peretti]
Serata a cena al ristorante. In tavola arrivano, in sequenza, un Valpolicella Superiore di un’aziendina premiata dalle guide, un Amarone “base” di un emergente (dico “base” perché ha anche un altro Amarone, che dovrebbe essere un cru o qualcosa del genere) e un Recioto della Valpolicella di una grossa realtà valpolicellese. Tutti e tre, per inciso, della zona Classica, quella storica. Ebbene, tutti e tre i vini sono segnati dal legno. Il primo, un 2010, asciuga, e man mano che passa il tempo, il vino si fa sempre più legnosetto - polvere di legno, segatura secca - nel calice. Il secondo, un 2009, il legno ce l’ha proprio impresso, e ne deriva un fastidioso finale amaro (nessuno gioco la battuta amaro-Amarone, per favore), e il fatto che sia giovane non è una giustificazione. Nel terzo, un 2006, il legno copre la dolcezza reciotista. Perché? Che senso ha? Io non sono riuscito a berli, nessuno dei tre, e - occhio - i produttori non erano di poco valore.
Capisco che i valpolicellesi guardano ben fuori Verona, ben fuori dall’Italia, perfino ben fuori dall’Europa continentale, ormai. Comprendo che chi è abituato a bere whisky non solo il legno non lo avverte come un problema, ma anzi lo ritiene magari un pregio, e dunque agli americani può piacere. Ma perché tutto questo legno a nascondere la bella ciliegia dei rossi della Valpolicella? Dov’è il territorio? Dov’è la classicità?
Domande probabilmente destinate a restare senza risposta. O meglio, la risposta è chiara: è il mercato, baby, che determina le scelte. Già.
[Angelo Peretti]
Al concorso agricolo generale di Parigi del 2013 gli hanno dato la medaglia d’argento, invece la guida Hachette gli ha assegnato il coup de coeur e le tre stelle, cioè il massimo dei massimi, e io sono d’accordo con la Hachette. Perché a me e a chi l’ha assaggiato insieme a me ha fatto gridare al miracolo. Un vino della Savoia. Bianco. Uno Chignin del 2012. Buono come raramente capita di trovare buono un bianco, teoricamente un piccolo bianco di una piccola appellation minore, che sa invece spiccare il volo e cantare la gioia di una tersa giornata d’aria e di luce in montagna. Albicocca, sale, mineralità, eleganza assoluta. Da bere, da ribere, da adorare.
Giusto per dire: on line si compra a 5,80 euro la bottiglia. Non è spettacolare anche questo?
Vin de Savoie Chignin 2012 Charles Gonnet
Tre lieti faccini ☺☺☺
[Angelo Peretti]
Sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore di qualche settimana fa, ho letto - come sempre in ritardo - un’intervista di Stefano Brusadelli a Paolo Matthiae, “l’unico archeologo vivente che può vantarsi di avere scoperto un’intera civiltà”. È lui lo scopritore di Ebla. Straordinario. Ma la curiosità quell’intervista non me l’ha destata per via dell’archeologia. Semmai, è stata l’ultima delle risposte dell’archeologo che m’ha fatto riflettere. Dice questo: “L’archeologia è anche una grande scuola di tolleranza. Nel senso che ciò che è sempre più interessante in un reperto archeologico è la sua porzione di alterità da noi. Cioè quello che non ci somiglia, che ci appare non chiaro, non comprensibile. L’alterità diventa un valore. Come dovrebbe accadere anche nella vita di tutti i giorni”.
Parola sagge. Che si applicano - o si dovrebbero applicare -, certo, alla vita. E pure, nella vita del bevitore attento, al vino e alla sua conoscenza. Assaggiare vini d’ogni angolo di mondo e d’ogni stile - che sia artigianalissimo o perfino industriale poco importa - dovrebbe avere proprio quest’obiettivo, e cioè capire che quel vino è testimone d’una alterità - di un’altrui pensiero, di una maniera che altri hanno di vedere il mondo – che, come tale, mette per forza in discussione le nostre certezze, i nostri pregiudizi. Serve tanta umiltà per esercitare questa pratica, serve giocare le carte della curiosità e del dubbio e della disponibilità alla comprensione. Ma l’alterità, anche nei vini, è il grande valore da ricercare.
[Angelo Peretti]
Angelo Gaja ha ragione, il vero avversario dell'Italia del vino è la Spagna. Lo dice in un testo che ha inviato in questi giorni a vari blog, secondo una tecnica di viralità mediatica che ha messo in atto da tempo: un'ottima maniera di comunicare. Non riprendo tutto il suo testo, che potete trovare on line, per esempio su I Numeri del Vino o su altre "testate".
Dico solo, in sintesi, che Gaja racconta che la Spagna ci ha quasi raggiunti o forse addirittura superati come quantità di vino prodotto, e che è ormai il secondo esportatore mondiale, ma ad un prezzo medio per litro che "è meno della metà di  quello italiano, che non è affatto elevato". Dunque, "ne consegue che sui mercati esteri alle bottiglie di vino spagnolo viene spesso riconosciuto l’ottimo rapporto qualità-prezzo" e poi "anche per lo sfuso la Spagna è in grado di offrire i prezzi più bassi". E poi che magari gli spagnoli non hanno tutte le varietà autoctone di vigna che abbiamo noi, ma che comunque ne possiedono un bel po'. E magari la cucina spagnola non è così forte all'estero come quella italiana, ma negli ultimi tempi gli iberici sono andati forte anche lì, e si stanno aprendo locali da tapas dappertutto. E comunque hanno la seconda lingua più parlata al mondo. Insomma, begli avversari, mica solo nel calcio.
Gaja ha ragione, e noi ce lo dimentichiamo, o facciamo la fita di non saperlo neanche che son le "furie rosse" i nostri competitor. Che poi, ecco che abbiamo scoperto - aggiungo io - che gli spagnoli sono anche "furie rosa", dato che in quest'ultima manciata d'anni ha nno bruciato le tappe nella produzione di vini rosati, conquistando mercato su mercato.
Già già, bella rogna. Col vantaggio tutto loro che sanno fare sistema, sanno presentarsi compatti. Ahi ahi.
[Angelo Peretti]
Ci sono anche le bottiglie inutili. Sono quelle che mi capita di bere talvolta durante certi pranzi di lavoro, in ristoranti sparsi per l'Italia. Vini senz'anima, privi di identità, che scorrono via senza lasciare memoria di sé. Mi resta, alla fine, solo la rabbia d'aver ingurgitato calorie non necessarie, che dovrò smaltire tribolando con le scarpette da jogging. Era meglio bere acqua, ma non potevo mancare di rispetto a chi mi stava di fronte e il vino lo pagava.
M'è successo di nuovo in quest'ultima manciata di giorni con una bottiglia di Champagne in trattoria. Ricordo solo che aveva le bolle. Almeno quelle. Per il resto, nulla da segnalare. Inutile.
[Angelo Peretti]
Vero che alla fine c’è il faccino sorridente. Però la battuta fa parte delle quindici predizioni che il guru vinoso Robert Parker Jr. ha affidato a Twitter nei giorni scorsi, indicando le sue previsioni per l’evoluzione del mondo del vino nel 2014. E allora, faccino o non faccino, va presa sul serio. Si tratta di questo: “Wine bloggers will continue to complain about their failure to monetize their sites and earn respect”. Insomma: i blogger del vino anche nel 2014 continueranno a lagnarsi per il loro insuccesso nel monetizzare i loro siti e guadagnare rispetto”.
Insomma, a fare il wine blogger non ci si guadagnano né soldi, né autorevolezza. È dunque un triste destino quello di chi scrive di vino on line, sissignori. E non so dargli torto, al critico americano: a meno che uno si metta a far marchette, soldini dal web non se ne cavano, o quanto meno non ci si paga neppure il pieno di benzina della macchina per andare a una rassegna, a una degustazione, a vedere una cantina o una vigna. Già già: saremo anche in piena rivoluzione digitale, ma carmina non dant panem - le poesie non danno pane -, come dicevano un sacco di tempo fa. Corsi e ricorsi storici?
[Angelo Peretti]
A vederlo, con quel verme così lungo (ehm: il verme del cavatappi è la vite che si infila nel sughero), dà l'impressione di funzionare, però io non l'ho mai provato, e dunque non so testimoniare. Sta di fatto che a mio avviso è un gran bel cavatappi di design. Simpatico.
Sto parlando del cavatappi vulcano di Bugatti. Sì, vulcano, perché ha la forma di un vulcano - giallo - con sopra un pennacchio rosso. Da Bugatti, marca bresciana che fa prodotti per la tavola e la cucina, posate e piccoli elettrodomestici, ce ne sono vari di oggetti per la casa che hanno la sagoma del vulcano. Non ho capito chi sia il designer del cavatappi, se riuscite a farmelo sapere ne sono felice: forse però è Teseo Berghella, che firma altri prodotti della serie del vulcano.
Su Amazon italiana costa(va) 36 euro: per un po' è stato disponibile, per un po' no.
[Angelo Peretti]
Antichi oliveti, tecnologie moderne, produttori appassionati: l’olio è un tesoro. Già, ma è spagnolo. Lo dice la copertina di Wine Spectator. Attenzione: Wine Spectator, mica una rivista qualunque. Il magazine che traccia la strada del successo internazionale di un prodotto. Ecco, la copertina Wine Spectator l’ha dedicata all’“Olive Oil Spanish Treasur”, ossia all’olio d’oliva, tesoro spagnolo. “Spain turns olives into gold” titola l’amplissimo servizio interno, la Spagna trasforma le olive in oro. E poi l’occhiello: “Dopo essere stata a lungo un produttore all’ingrosso, la Spagna ora sta facendo alcuni dei migliori oli del mondo”. Dodici pagine con fotone scenografiche, olivi e tramonti romantici, mica scherzi.
Eccoci qui, noi italiani ce la tiriamo tanto predicando (a casa nostra) sull’eccellenza dell’extravergine tricolore, e gli spagnoli ci superano, mettendo a segno un colpo micidiale. La morale tiratela voi. O meglio, i produttori oleari taliani meditino un po’. E magari la piantino di dividersi in sterili baruffe da strapaese per guardare un po’ fuori dall’orticello di casa.
[Angelo Peretti]
Ha ragione Camilla Baresani: si beve (anche) per dimenticare. Dice: “Beviamo tutti anche per dimenticare, per tornare a uno stato d’innocenza interpretativa - sociale, enologica, artistica, letteraria -, alla purezza delle emozioni”. Lo dice su “Io Donna”, il magazine del Corriere della Sera, che leggo sempre con colpevole ritardo. Ma i pezzi di Camilla Baresani, anche tardivamente, me li gusto, come ghiottonerie letterarie. E aggiunge che è un po’ come accade per i libri: “A volte penso di saperne troppo, di avere perso lo sguardo edonistico del lettore non professionale, e cerco tramite il vino uno stato di fruttuosa spensieratezza, che mi aiuti a leggere senza l’intralcio di tutti quei retroscena che ho appreso in anni di studio e di lavoro”.
Ecco, sì, ha ragione. A me succede col vino, perché trent’anni di frequentazione delle cantine e delle degustazioni - già, col 2014 sono esattamente trent’anni dai primi balbettii enologici - fatico a tastare con quella spensieratezza che il vino richiederebbe. Però quella stessa voglia di spensieratezza mi spinge a bere (anche) per ricordare. Ricordare, intendo, il senso primo del vino, che è il racconto di persone e di vigne e di terre e di albe e di piogge e d’altro, e l’altro è la vita. Ricordare che senza umanità il vino è niente, una bevanda alcolica, nulla più.
Dimenticare, talvolta, aiuta a ricordare.
Grazie, Camilla.
[Angelo Peretti]
Mi è stato rinfacciato che durante la degustazione di undici Saint-Émilion degli anni Sessanta, che ho messo insieme qualche giorno fa, ho adoperato troppe volte l’aggettivo “spaziale”. Vero. Ma avrei potuto dire anche stellare, astrale, siderale, perché davvero eravamo in un’altra dimensione del tempo e dello spazio, lontani anni luce dal vino di oggi, su un pianeta diverso, in una differente galassia, lassù. Ecco, quest’eleganza, questa beva, quest’eterna giovinezza, chi le sa più mettere dentro a una bottiglia? Sono cambiate troppe cose. Il clima, probabilmente. La viticoltura, certamente. Sicuramente l’enologia. Viticoltura ed enologia sono diventate più pervasive, più determinanti sull’esito della vendemmia. Nel nome di un dio che si chiama mercato, che pretende di dettare le regole, che ti premia – almeno nel breve – se te ne fai servitore.
È incredibile pensare come invece quelle bottiglie cinquantenni siano ancora così straordinariamente giovani. Colori integri. Frutti succosi. Beva strepitosa.
Spaziali, sono bottiglie spaziali, se si pensa che cosa c’è in giro oggi. Oggi abbiamo vini perfetti enologicamente, pronti con immediatezza per rispondere al gusto planetario, globale. Dureranno nel tempo? E chi lo sa.
Intanto, io mi godo i Bordeaux di prima della parkerizzazione del gusto. E questa è stata una splendida degustazione. Qui sotto, in breve, i vini. Su qualcuno magari mi soffermerò più avanti con qualche altra riga di riflessione.
Ah: utilizzo stavolta, anziché i miei soliti faccini, una valutazione in centesimi, per poter stabilire qualche graduatoria di piacevolezza, ché altrimenti a quasi tutti i vini bevuti avrei dovuto tributare i tre lieti faccini, o quanto meno i due faccini e quasi tre.
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1961 Château Yon-Figeac
L’eleganza storica dei Bordeaux, probabilmente insuperabile. Fiori, fruttini, grazia. 94
Saint-Émilion 1961 Château Cormen-Figeac
Magro, esile e ritroso. Tartufo, kerosene, terra. Non spicca il volo, ma si fa bere. 82
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1962 Château Grand Barrail Lamarzelle Figeac
Impressionante brillantezza di colore. Grande naso. Frutto croccante, tannino saldo. 86
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1964 Château Guadet-St. Julien
Ha tinta profonda, e profondità propone anche al palato. Strepitoso frutto. Applausi. 90
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1964 Château L’Arrosée
Scattante, nervoso, croccante, slanciato. Un rosso fantastico, estremamente giovane. 96
Saint-Émilion Grand Cru 1966 Château Fombrauge
Velluto. Ecco, questo è velluto liquido. Il frutto avvince. Sotto, una vena di liquirizia. 97
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1966 Château Larcis Ducasse
Rubino scuro. Mirtillo e fruttini rossi, immediati, al naso e al palato. Bel tannino. 90
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1967 Château Balestard La Tonnelle
Amarena ed eucalipto, frutto e vena officinale, insieme. Eleganza. Infinita lunghezza. 95
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1967 Château Canon La Gaffelliere
Frutto e spezia. Tabacco da pipa e fiori appassiti. Tamarindo e vaniglia. Complesso. 89
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1969 Château Soutard
Floreale: lavanda, gelsomino. Oh, che profumi! Poi, cioccolato e beva e giovinezza. 95
Saint-Émilion Grand Cru Classé 1969 Château Villemaurine
Spezia e fiori secchi, amaretto e mentuccia, cedro e sassi bagnati. Gran bel bouquet. 90
[Angelo Peretti]
Prosecco è il nome di un’uva, e dunque la pretesa italiana ed europea di proteggere quel nome in esclusiva come un’indicazione geografica viene respinta. Questa, in estrema sintesi, la decisione dell’Australian Trade Marks Office Geographical Indication di fronte alla richiesta di registrazione del marchio Prosecco in Australia avanzata dall’Unione europea. Brutto colpo per i prosecchisti. Vero che adesso l’Unione europea può ricorrere contro la decisione australiana, ma se questa venisse confermata protrebbe uscirne un bel grattacapo per il Prosecco fuori dall’Europa. Perché il boom delle bollicine del Nord Est ormai ha portata mondiale, ma se il nome non venisse considerato un’esclusiva di un vino a denominazione italiano, be’, potrebbero aprirsi varchi verso la produzione di Prosecco in altri continenti. Come avviene, del resto, proprio in Australia.
Due passi indietro.
Il primo. Prosecco fino a qualche anno fa era davvero il nome di un’uva, e con quella ci si faceva un vino doc che si chiamava appunto Prosecco. Poi l’uva venne chiamata glera e l’area di produzione del Prosecco venne estesa dal Veneto al Friuli, perché in terra friulana c’è un paesino che si chiama Prosecco. Così adesso la doc Prosecco fa riferimento a una località - quella del paese di Prosecco, appunto - e non più a un’uva, che ora si chiama glera.
Il secondo. Tra l’Unione europea e l’Australia dal 1994 esiste un accordo – si chiama “Agreement between Australia and the European Community on Trade in Wine” – che stabilisce reciproche regole di tutela dei marchi vinicoli.
In base all’Agreement esistente, l’Unione europea, su richiesta italiana, ha domandato all’Australia di proteggere il nome Prosecco. Ma dagli australiani è arrivato un dettagliato “no”.
Nella sostanza, contro la domanda europea ha fatto ricorso - vincendolo - la Winemakers' Federation of Australia, un’organizzazione che riunisce i produttori australiani di vino, affermando che nel Wine Agreement del ’94 il termine "Prosecco" era riferito a una varietà di uva e che due cantine australiane (Dal Zotto e Brown Brothers) da anni hanno piantato vigne di prosecco (i primi impianti sono del ’97), producendo un vino che si chiama proprio Prosecco e commercializzandolo con quel nome in Australia, ma anche in Nuova Zelanda, Cina, Hong Kong e Indonesia. In più, nella King Valley, nello stato di Victoria, in Australia, c’è perfino una strada turistica intitolata a quel vino, la Road of Prosecco.
Obiezioni accolte. Adesso la palla passa agli europei, per il ricorso.
[Angelo Peretti]
Oh, cavolo, questa sì che è grossa: “nel 2014 verrà alla luce la frode di quell’indefinibile truffa dei vini chiamati “naturali” o “autentici” (la maggior parte dei vini seri non hanno additivi)”. Fermi, fermi: non è roba mia. La dice un nome che conta nel mondo del vino: Mr. Robert Parker Jr. Sì, proprio lui, l’uomo che ha rivoluzionato - nel bene o nel male, ciascuna ha la propria opinione – lo stile del vino a livello mondiale nell’ultimo quarto di secolo. Ora, che a usare toni così duri verso il fenomeno “naturalista” sia proprio Parker credo che finirà per rafforzare il partito bioqualcosa. Però che sia lui a dire’ste cose ha comunque un significato: vuol dire che il tema è sentito a livello internazionale.
Il vaticinio lo si legge sulla pagina Twitter di Robert Parker Jr. È lì che il super-critico americano ha reso note le sue quindici profezie su cosa accadrà nel mondo del vino nel 2014 che è appena iniziato. La previsione numero 3 è quella che riguarda i vini “naturali”. Per la cronaca, la prima è quella che prevede una maggior difficoltà nelle vendite delle ultime tre annate europee (dal 2011 al 2013) giudicate mediocri e nel contempo, invece, - lo si legge all'auspico numero 2 - ci sarà il successo delle “gloriose” vendemmie californiane del 2012 e 2013.
[Angelo Peretti]
Ci sono certi vini che incontrarli è come vedere un mistero che si disvela. Per esempio, il Rosso di Corte del ’90 di Corte Gardoni, il domaine che Gianni Piccoli ha fondato a Valeggio sul Mincio, a sud del Garda. Dico il nome francese – domaine – perché filo transalpina è la sua cultura enoica. Poi, questo è un taglio bordolese, e dunque anche le uve sono franzose. Ma è assolutamente, totalmente, inequivocabilmente (ci vuole ‘sta serie di avverbi, ci vuole) un rosso gardesano. Perché se non vedi dall’etichetta che ha tutti quegli anni, dici che è uno di quei rossi giovani, scattanti, nervosi, leggeri che fanno da queste parti. E invece, ecco qui, è in bottiglia da un sacco d’anni, eppure non tradisce il minimo cenno dell’età, nemmeno nel colore, che resta integro, rubino brillante. Chapeau, monsieur Piccoli.
Ma è solo il suo reggere il tempo che mi entusiasma di questo rosso da taglio bordolese fatto sulle morene valeggiane? Nossignori. È piuttosto il suo sapersi fare riferimento. Intendo riferimento di quel che potrebb’essere questa “mia” terra e ancora interamente non è. Terra vocata non a far vini concentrati e pieni e polputi – non lo è per nulla -, bensì a cercar l’eleganza, che assai raramente si regge sull’alcol, sul tannino, sulla concentrazione. E non m’importa nulla che si tratti, in questo caso, d’un taglio bordolese. Dico che qui, questo stato di grazia, è possibile arrivarci anche con la sola corvina. Piuttosto, è interessante sapere che il vino ha fatto un po’ di legno – che non s’avverte – e poi tanta bottiglia. Ecco, credo che il legno, in questo caso dei rossi gardesani, possa aiutare. Mica ad insaporire. Semmai a meglio esprimere le terre del luogo. Un po’ come là in Borgogna, o a Bordeaux, dove il legno c’è sempre, ma è bene che non se ne trovi memoria dentro al calice, se davvero il vino è degno di rappresentare il terroir.
Ecco, vini così, come questo Rosso di Corte del ’90, fanno pensare. Pardon: dovrebbero far pensare. Spero ci si pensi.

Mai provato l'ndurger?

5 gennaio 2014
[Angelo Peretti]
Lo so, verrò bandito dai convivi di Slow Food, dalla pagina Facebook dei Divoriani indefessi (esiste, esiste) e dalle accolite gourmand del pianeta, e per di più perderò decine e forse centinaia di lettori. Però, insomma, è andata così: dieci di sera, famiglia affamata. I miei figli hanno una pensata: si passa al McDrive e si compra qualcosa e si porta a casa. Approvato. Io mi faccio prendere un hamburger. Solo che poi, a casa, be', insomma, mangiare proprio un hamburger... E allora ho anch'io la mia pensata. Apro il frigo, tiro fuori l'immancabile 'nduja calabrese (per chi non lo sapesse, un salume spalmabile di guanciale e peperoncino) e ci spalmo il lato interno di uno dei mezzi panini morbidi dell'hamburger di McDondald's. Ordunque: ho inventato l'ndurger. E francamente non l'ho trovato niente male, ma proprio niente male. E il Soave che ci ho bevuto insieme (per la cronaca, I Tarai 2011 di Corte Moschina, piuttosto piacevole) ci stava alla grande.
Avvertenza per la multinazionale del panino veloce: se pensate di mettere a listino l'ndurger, il panino con hamburger e 'nduja, ho pieno titolo a riceverne le royalty, il pagamento dei diritti d'autore. Avviso ai naviganti: se vi va di provare, credetemi, può essere divertente, a una condizione, non essere gastrofighetti che si prendono troppo sul serio. E adesso mi aspetto improperi assortiti.
[Angelo Peretti]
Be', come regalo per un wine lover tradizionalista, un cavatappi con l'impugnatura in sughero può andare. Ammesso che il bevitore in questione non preferisca le capsule a vite - ma allora non sarebbe un tradizionalista, ça va sans dir -, che è poi il mio caso. Comunque, questo è carino: lo produce la Normann Copenhagen, azienda - leggo - fondata nel 1999 da Jan Andersen e Poul Madsen come un negozio di articoli da design. Poi i due si son messi a progettare da sé: prima creazione una lampada. Adesso ecco anche altri oggetti, tra cui quelli da vino.
Be', il loro cavatappi col manico in sughero lo potete trovare sull'e-shop di Monoqi: bisogna iscriversi, ma non si paga niente per farlo. Il prezzo è 20 euro, ma qualche tempo fa era in offerta a 8.
[Angelo Peretti]
Oggi è il mio compleanno, e dunque mi faccio un regalo. Questo: il ritorno del vinino. Lo ricordate il "mio" vinino? Il Manifesto per la piacevolezza dei vini da bere? Ecco, quello lì. E dico: se tutto va bene, presto mi regalo il primo Vinino Fun Festival. Fun, come divertente. Che suona un po' come fan, seguace. Il primo incontro per i seguaci del vinino che si vogliono divertire.
Ovvio, dovrò fare le cose in economia: mica ho alle spalle chissà quale potenza economica o finanziaria. Anzi, mi sa che dovrò proprio autotassarmi. Ma mi piacerebbe davvero realizzarla questa rimpatriata del vinino.
Attendo, ovviamente, candidature dei vinini da portare in degustazione, dei produttori da invitare. Chi mi offre suggerimenti? Chi si autocandida? Fatevi avanti.
L'appuntamento è per giugno: c'è tempo, ma mica così tanto come sembra, se si vogliono fare le cose in economia, ma comunque sufficientemente per bene.
Posso contarci? In fondo, è il mio compleanno, oggi.
A proposito: la fotina è di Enrico Lucarini.

Le uve sono tutte uguali

2 gennaio 2014
[Angelo Peretti]
Be', questa, mi dispiace, non posso proprio evitare di raccontarla. Ometto i riferimenti alla zona e al protagonista, ma credo sia ugualmente significativo per dire come vanno talvolta le cose nel mondo dell'italica spumantistica. Qualche giorno fa, appuntamento serale, come supporter un'azienda che fa vini con le bolle in una delle zone italiane "vocate" (si dice così, no?) appunto per le bolle.
Bene. Mi offrono un calice. Bevo. Ci sta. Mi presentano il produttore (o almeno io ho capito fosse tale, ma forse ho compreso male la presentazione). Due parole e poi, giusto per conversare, chiedo: "Ma le uve da dove vengono?" Lui, quasi scandalizzato: "Ma da xxx!" (xxx sta per la zona). Al che, io: "Sì, ovvio, se è un xxx le uve vengono dalla zona del xxx, ma da quale parte della zona del xxx? Il posto Tale non è la stessa cosa del posto Talaltro" (in luogo di Tale e Talaltro immaginate due noti comuni dell'area di produzione). Lui: "Le uve da noi sono tutte buone". Io: "Ah, be', sì, capisco". Esatto: ho capito.
[Angelo Peretti]
Eccoci qua, fine anno. Momento di riflessione, su quello che è stato, su quello che sarà. Riflessione anche per me, per il mio essere in qualche modo parte del grande circo del wine&food. Nulla di allarmante: non sono qui ad annunciare un nuovo stop alle pubblicazioni dopo quello di due anni e mezzo fa (qualcuno lo ricorda). Dico però che il mondo - anche quello del vino - non è più quello di prima, né potrà più esserlo, e dunque occorre cercare una nuova maniera di approcciare un contesto mutato.
Mauro Fermariello in marzo mi ha fatto uno dei più bei regali che io abbia mai ricevuto dacché mi occupo di vino. Introducendo una mia videointervista sul suo Winestories, mi ha presentato così: "Angelo ha un fare tranquillo, è un intellettuale del vino con basi rigorose, ma gli si legge dentro una vera passione, e un carattere impetuoso tenuto a freno dai modi sempre garbati". Ecco, non so se i miei modi siano davvero garbati - qualcuno sostiene il contrario -, però lo ammetto, a costo di sembrare presuntioso: mi sento un mezzo intellettuale, nell'approcciare il pianeta vino, e come tale so di apparire (e di essere) talvolta ingarbugliato e perfino criptico. Sono fatto così, e non posso rinunciare a pormi continuamente delle domande, e me le pongo a maggior ragione ora che tutto sta cambiando, anzi, che tutto è cambiato.
"Affari tuoi", si dirà. Be', sì, certo, affari miei. Ma a fine anno mi permetto di scriverlo, augurando a chi mi legge, ed anche a me, di trovare la strada giusta nel mondo che ci attende. Ah, e ovviamente un grazie a tutti coloro - sempre di più, per fortuna - che mi leggono.
Per intanto, sto lavorando a qualcosa di nuovo. Anche a un nuovo InternetGourmet. Prossimamente. Qui.

I miei vini dell'anno

30 dicembre 2013
[Angelo Peretti]
Fine anno, tempo di classifiche. Le fanno in tanti, e perché io non dovrei? E allora ecco la top 10 dei vini che ho bevuto nel 2013 che ci stiamo lasciando alle spalle. Scelte personalissime, ma se avrete la voglia - e in qualche caso la fortuna, visto che alcune annate non sono più in commercio - di provare queste bottiglie, be', penso che non ve ne pentirete. A me 'sti vini sono piaciuti. Tanto. Dunque, ecco la mia arbitraria, soggettiva, indipendente selezione.

Il Rosso 
Valpolicella Classico Superiore Sanperetto 2011 Mazzi
Mi ha sorpreso per l’eleganza, questo vino. L’ho definito il Valpolicella del futuro, del dopo Ripasso, perfino del dopo Amarone. Perfetta espressione della corvina fresca, fruttata, di grande beva, eppure anche di considerevole, austera complessità.

Il Bianco
Cinqueterre 2011 Forlini Cappellini
Il mare. Ecco, se si cerca un vino che esprima il mare, è questo qui. Sa di risacca, di alghe, di iodio, di vento che porta l'odore salmastro. Questo bianco è figlio del mare. Si può usare la parola capolavoro? Sì, in questo caso non ho dubbi che si può.

Il Rosé
Tavel La Dame Rousse 2012 Domaine de la Mordorée
Giù il cappello per uno dei più grandi rosé del mondo. Ne ho la conferma annata dopo annata, e il 2012 è ancora una volta splendido. Fiori, frutti, spezia raffinata. Da bere ora e nei prossimi cinque anni. Perché questo è un rosé che regge il tempo.

Il Vinino
Vigneti delle Dolomiti Schiava Nera 2008 Gino Pedrotti
La mia idea del vinino è quella di un vino semplice ma per nulla banale, capace anzi di esprimere insieme beva e territorio. Ecco, la Schiava Nera di Gino Pedrotti è esattamente questo. Un 2008, alla faccia di chi pensa che il vinino sia piccolo.

Il Rosso d’Antan
Graves 1978 Château Carbonnieux
Chi mi segue da più tempo lo sa: adoro i vecchi Bordeuax. Per esempio, ho avuto la fortuna di comprare un po' di bottiglie del '78 di Château Carbonnieux. Be', che dire, se non che si beve che è un piacere. Delicato, sottile, pulito, fresco, succoso.

Il Bianco d’Antan
Savennières-Coulée de Serrant Clos de la Coulée de Serrant 1976 Nicolas Joly
Signori, giù il cappello: ecco la Coulée de Serrant del '76. Si presenta ancora giovincella, e anzi quasi ritrosa a concedersi, aprendosi pian piano, con lentezza assoluta ma imperiosa, verso suggestioni sempre più intriganti e sinuose.

Le Bolle
Champagne Nec Plus Ultra 1995 Bruno Paillard
Paillard mi dice: "Ha un equilibrio un po' più perfetto del '96", e questo comparativo d'un superlativo rende l'idea di quanto valga questo vino. Sono d'accordo: vino splendido, ed esagero anch'io col super-superlativo, e dico splendidissimo.

Il Frizzante
Lambrusco di Sorbara Leclisse 2011 Gianfranco Paltrinieri
Mi piacciono i vinini e mi piacciono i vini con le bolle. Coniugare le passioni, l'ammetto, non è facilissimo. Epperò a volte ci si riesce, e allora si ha nel bicchiere il vino perfetto. Ecco, Leclisse 2011 è il vino perfetto. Bevetevelo (a secchiate).

Il Naturale
Vino Rosso 2011 Cascina Tavijn
Un rosso col tappo a corona. Ho contattato Nadia Verrua, la produttrice, e ho saputo che è una prova di Ruché 2011 senza solforosa. Appena petillant, ruvidamente tannico, morbidamente fruttuoso. Da bere con gusto spensierato.

Il Vino Dolce
Moscato d’Asti 2012 Paolo Saracco
Oh, tra i miei vini top non poteva mancare il Moscato di Paolo Saracco, che per me è una specie di ossessione. Questo 2012 lo adoro. L’ho bevuto parecchie volte in estate. Come aperitivo, sissignori. E poi in autunno coi dolci di frutta secca.

Una trattoria vintage a Roma

29 dicembre 2013
[Angelo Peretti]
Questo posto l'ho trovato su Tripadvisor. Anzi, me l'ha trovato mia figlia, ché stavo a Roma, era tardi, avevo fame ed ero vicino alla stazione Termini e cercavo un posto da quelle parti dove mangiare. Allora lei ha guardato su Tripadvisor e ha visto che lì vicino, in via Vicenza, traversa di via Marsala, pochi passi da Termini, aveva valutazioni alte la trattoria Dell'Omo, e così ci sono andato. In verità, ci sono passato davanti e non me ne sono neppure accorto, perché insegna e ingresso non sono certo appariscenti. Non lo è nemmeno l'interno, anzi: spoglie tovaglie bianche, fiori di plastica dappertutto, arredo che tradisce i cinquant'anni d'onorato servizio, casse di acqua minerale per terra. Scrive un frequentatore di Tripadvisor: "Devo dire che se una pers deve valutarlo da fuori non entrerebbe..." Esatto. Però poi ti siedi e vieni accolto in maniera familiare (ti danno immediatamente del tu) e magari ti capita di trovare - com'è capitato a me - dei peperoni ripieni (ripieni "di vitella", come dicono a Roma) che sono sostanziosi, sapidi, rusticamente ghiotti, e cominci a stare bene, e capisci che stai facendo un tuffo indietro nel tempo, in una trattoria ferma dov'era quando la sua storia è iniziata, con una cucina che sa di casa, di pranzo festivo, di famiglia. "Una cucina casareccia autentica" la definisce un altro recensore di Tripadvisor. Porzioni abbondanti, aggiungo, com'è tipico delle trattorie di una volta. Magari la volta prossima - conto di tornarci - invece dei tonnarelli cacio e pepe, un po' semplicini, ordino la carbonara, di cui ho letto un gran bene.
A proposito: un primo e un secondo vanno sulla ventina di euro.
Trattoria Dell'Omo - via Vicenza, 18 - Roma - tel. 06 490411
[Angelo Peretti]
Non è facile, non lo è proprio. Fare vini rosa con le bolle, metodo classico, non è facile no, perbacco. Allora, quando mi imbatto in una bella interpretazione, be', me la bevo di gusto. Mi è successo di recente con una bollicina rosata che viene dall'Alto Adige: il brut rosé targato Kettmeir. Anzi, per dirla esatta, l'Alto Adige Brut Rosé Athesis Kettmeir.
Bello già dal colore, un bel rosa tenue, brillante (niente venature buccia di cipolla, che in genere non amo, ma è solo una mia fisima estetica). Eppoi al naso e alla bocca il lampone, nitido, piacevole. E un che di fragolina di bosco. E un perlage gestito benissimo, quasi cremoso. Ha morbidezza, ma niente sdolcinature.
Te ne bevi un bicchiere e ti vien voglia di fartene versare un altro. Ahimè, non ho visto la sboccatura della bottiglia da cui mi hanno riempito il calice. Pazienza.
Dimenticavo: tutto pinot nero, e non è precisazione da poco (del resto, quel fruttino così nitido pinoteggia parecchio, inconfondibilmente).
Alto Adige Brut Rosé Athesis Kettmeir
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

[Angelo Peretti]
Delle due l'una: o sono fessi pressoché tutti i produttori di vino, o sono furbi - fin troppo - alcuni produttori di birra. Tertium non datur, stando a quel che vedo qui e là in giro per l'Italia quando si tratta di banchi d'assaggio e manifestazioni fieristiche. Sì, perché i vignaioli sono lì coi loro vini e te li fanno assaggiare gratuitamente, versandotene una piccola quantità, ma sufficiente, e hai a disposizione un gettavino per potervi versare l'eccesso del vino assaggiato. I birrai, invece, molte volte ti spillano un bicchiere colmo (quasi sempre di plastica) e te lo fanno pagare (al prezzo del bar) e non c'è verso di avere un qualunque contenitore per versarvi la birra in più.
D'accordo, non si può generalizzare, ma il contrasto l'ho toccato con mano "in presa diretta" a un recente meeting gastronomico milanese: una sala dedicata al vino, una dedicata alla birra, nella prima assaggiavi - gratis - e sputavi nel gettavino, nella seconda bevevi - a pagamento, in media 3 euro a bicchiere piccolo - e se per caso avevi birra di troppo nel bicchiere dovevi fiondarti in bagno per liberartene.
Così non va. Perché mettiamo che io mi voglia fare una cultura estesa del vino o della birra. A un tasting vinicolo posso assaggiare trenta, quaranta, cinquanta vini e uscirne sano e salvo. A un banco di birra dovrei ingollarmi litri di liquido fermentato, e sarei morto, e sarebbe svuotato anche il mio portafoglio.

Un bianco in terra di rossi

26 dicembre 2013
[Angelo Peretti]
Crozes-Hermitage è un'appellation del Rodano settentrionale, una delle più grosse della zona, e rappresenta grosso modo la metà del totale del vino prodotto da quelle parti. Di solito ci si fanno vini rossi, con l'uva del syrah. I bianchi sono un'esigua minoranza (intorno al 7-8% suppergiù sul totale della produzione enologica della denominazione) e vengono fatti con l'uva di marsanne o di roussanne, che peraltro possono anche essere adoperate in piccola parte, mi pare, nel taglio dei rossi. Bianchi minoritari in terra di rossi.
On line ho visto a prezzo abbordabile - 12,90 euro - un Crozes-Hermitage bianco di Laurent Combier, che è uno dei nomi più noti della zona, pioniere del biologico. Un vino base per quest'azienda.
Incuriosito, l'ho comprato. È fatto tutto con uva di marsanne presa da vigne giovani (sulla scheda tecnica leggo che sono intorno ai dieci anni). Ha naso floreale e speziato. Bocca tesa, polposa, asciutta, salatissima, piccante, zenzero e lime. Sarà anche un base, ma è un bel vino, elegante. 
Crozes-Hermitage Cuvée Laurent Combier 2011 Laurent Combier
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
[Angelo Peretti]
E già, è un bel problema: si invitano gli amici a cena, si offre l'aperitivo e poi, quand'è il momento di andare a tavola, nessuno si ricorda più dove ha posato il proprio bicchiere, così ti tocca tirarne fuori un altro a testa e hai il doppio di calici da lavare. La soluzione è un segna bicchiere personalizzato per ciascuno degli ospiti. E allora ecco che Vacu Vin ha messo sul mercato un kit con dodici bizzarri personaggini in plastica colorata, con tanto di ventosa, che si possono appiccicare al calice: fantasmini, sagome in stile extraterrestre, angioletti, cose del genere. Su Amazon inglese si trovano attorno alle 6 sterline. Non male. A condizione che vi siate segnati a chi, tra gli invitati, corrisponde quel dato personaggio, sennò siete nelle stesse condizioni di prima.


[Angelo Peretti]
Ecco, sarò anche permaloso e poco ecologista, ma quei cartoncini nei bagni di parecchi hotel mi irritano e non poco. Sì, quelli che ti dicono che basta un tuo semplice gesto di attenzione per salvare il mondo, e dunque se sei ambientalista gli asciugamani della tua stanza te li ripieghi e li adoperi anche il giorno dopo e se invece vuoi che te li cambino e mandino quelli sporchi in lavanderia occorre che li butti per terra. Ma in questo modo se decidi di farteli cambiare ti senti un po' in colpa: eggià, perché stai facendo un gesto che inquina i fiumi e i mari e i laghi, perché lavare gli asciugamani inquina. "Vi ringraziamo per il sostegno dato a tale iniziativa e per la conservazione dell'ambiente. Proteggiamo il nostro ambiente. A voi la scelta" diceva l'ultimo cartellino, ovviamente verde, che ho trovato. E mi sono sentito un verme a buttare per terra i miei asciugamani sporchi.
Ebbene, d'accordo, facciamo un patto, cari albergatori: io contribuisco a salvare l'ambiente e mi tengo gli asciugamani sporchi, ma voi mi scalate il costo della lavanderia dal conto della mia stanza. Già, perché 'sta storia della protezione dell'ambiente mi puzza un pochetto: alla fine, a guadagnarci siete voi, che risparmiare sulla lavanderia pur facendomi pagare la camera con tutti i servizi, compreso il cambio degli asciugamani. Coi vostri inviti alla salvezza del pianeta io salvo il mondo e voi guadagnate di più: mmh, non quadra.
Allora, d'accordo che d'ora in poi facciamo così?

I cinesi del Bordeaux

22 dicembre 2013

[Angelo Peretti]
La drammatica notizia dello schianto dell’elicottero su cui volava il miliardario cinese Lam Kok, che aveva da poco concluso l’acquisto di Château de la Rivière, bella realtà del Fronsac, a Bordeaux, ha reso tangibile anche ai non addetti ai lavori quella che è oggi una realtà bordolese: la Cina è lì. I cinesi si stanno comprando una proprietà dietro l'altra.
Chi sono i compratori? La Revue du Vin de France dice che sono "ricchi investitori, gruppi industriali del settore agroalimentare o delle bevande alcoliche". Ma, stando alla Revue, c'è chi si allarma per quest'avanzata cinese: come resistere alla potenza finanziaria di questa gente? Però c'è anche chi è convinto che sia un'opportunità per la viticoltura bordolese. Si dice: hanno comprato appena una cinquantina di aziende, ma nella zona ce ne sono novemila, e dunque sono una minoranza. Piuttosto, sostengono costoro, sono una grossa chance per far conoscere i Bordeaux in Cina. C'è sempre chi il bicchiere lo vede mezzo pieno e chi lo vede mezzo vuoto. Ora, con il dramma dell’elicottero precipitato, che il bicchiere l’abbiano in mano i cinesi è noto al mondo.
[Angelo Peretti]
Se mi dicono la parola "focaccia" penso a qualcosa di salato, a un pane pregno d'olio, basso, schiacciato, magari da accompagnare coi salumi. Invece c'è un posto, ed è Salsomaggiore Terme, che se dici "focaccia", ecco che ti si apre uno scenario di dolcezza. Sì, perché da quelle parti, alla pasticceria Tosi, fanno un dolce che si chiama focaccia ed è parente prossimo del panettone. Lievitata, soffice, contrappuntata da golosi canditi, aromatizzata col profumo del maraschino. Buona, fragrante di farina, per nulla stucchevole, di bella persistenza. Eh, sì, una dolcezza che merita.
Pasticceria Tosi - Parco Mazzini, 5 - Salsomaggiore Terme (Parma) - tel. 0524 577066
[Angelo Peretti]
E pur si muove. Il mondo del vino italiano, intendo. Piano, ma si muove. E ora anche la Barbera d'Asti - che è a docg, ma chi se ne frega, visto che doc e docg sono entrambi dop - può essere messa in bottiglie chiuse col tappo a vite. Pardon, con la capsula a vite, come preferisco dire io. Lo leggo in un comunicato stampa del Consorzio Vini Asti e Monferrato, nel quale si annuncia la nascita di una nuova denominazione, quella del Nizza, ma di questo parlo più avanti. Dentro al comunicato è scritto: "Viene invece liberalizzata la chiusura delle bottiglie di Barbera d’Asti docg (il disciplinare esclude solo il tappo a corona)". Poi si riporta l'affermazione di Stefano Chiarlo: "La scelta di poter utilizzare tappi alternativi al sughero è un’apertura verso nuovi mercati come quelli del Sud Est Asiatico, dove il tappo in sughero rappresenta un ostacolo al consumo. Non tutti i popoli hanno dimestichezza ad usare il cavatappi. Inoltre tappi più moderni portano vantaggi per nuove occasioni di consumo a bicchiere nei bar e locali per giovani, facilitando la chiusura della bottiglia e quindi la conservazione del vino". Il comunicato prosegue dicendo che anche il nuovo disciplinare del Ruché di Castagnole Monferrato "esclude solo la possibilità di utilizzare i tappi sintetici e tappo a corona". Evvai.
Apro e chiudo un inciso: perché escludere il tappo a corona? Ne riparleremo.
Ora, eccoci invece al Nizza. È dunque nato il nuovo Nizza docg (sulla docg vale quel che ho detto sopra). "Il nuovo Nizza - leggo - sarà 100% Barbera. Non è consentito l’arricchimento del grado alcolico nelle annate dichiarate sfavorevoli: nelle annate difficili non si produrrà Nizza. Inoltre nasce un Nizza riserva che deve essere affinato in cantina almeno 30 mesi (minimo 12 mesi in botti di legno)". La sperimentazione andava avanti dal 2000 dal 2000: le uve vengono da 18 comuni del Sud Astigiano, attorno alla città di Nizza Monferrato. In bocca al lupo: sono convinto che avrete successo, vignaioli del Nizza, perché l'esperienza accumulata è un patrimoni prezioso.
[Angelo Peretti]
Sì, sì, lo so che l'hanno già scritto in tanti, ma proprio non ce la faccio a non dire la mia sulla mascotte di Expo 2015. Be', diciamo che non mi piace, proprio no. Ma come, facciamo l'Expo qui da noi, ci investiamo sopra una valanga di soldi, e l'immagine dell'Italia la affidiamo a una faccia all'Arcimboldi in versione cartoon, con tanto di frutta esotica? Le banane: eccolo qui il frutto che compare più in evidenza nel disegno della mascotte. Le banane che fanno da labbra alla facciona ridente. Ci vantiamo tanto dei nostri primati agricoli, e quali frutti mettiamo a rappresentarci? Le banane. E anche il mango: già, c'è anche quello. Prodotti tipicamente made in Italy: chi non le conosce le nostre piantagioni di mango e banane? A dire il vero - ma forse mi sbaglio io - mi sembrava che in Italia si producessero, che so, anche uve e olive e che con quelle ci si facciano vino e olio, e che questi alimenti siano tra i fondamenti della dieta mediterranea. Bah, probabilmente non sono aggiornato.
[Angelo Peretti]
Cavolo, è crollato un mito. Avete presente Bond, James Bond? Sì, l'agente 007. Ecco, non ce l'avrebbe mai fatta. Non era in grado di compiere quelle sue mirabolanti imprese e neppure di spupazzarsi le Bond girls. Perché era un alcolista. Mani tremanti. Sensi appannati (tutti i sensi, anche "quel" senso). Destinato a morire di cirrosi epatica intorno ai cinquant'anni. Lo dice una ricerca inglese comparsa sul British Medical Journal. Ne ho letto sulla Repubblica e sono andato a leggermi il report originale. Tre medici - tre specialisti -, Graham Johnson, Indra Neil Guha e Patrick Davies, sono andarti a leggersi tutti e quattordici i libri della saga di 007 scritti da Ian Fleming. E hanno calcolato quanto alcol bevesse l'agente segreto sciupafemmine. Anche tenendo conto che di tanto in tanto non poteva proprio bere, perché per esempio era imprigionato, ne è venuto fuori un quadro drammatico: a secondo del libro, Bond ingurgita una media di 92 unità di alcol la settimana, quattro volte il livello massimo ammesso dal National Health Service, il Servizio sanitario nazionakle britannico. Giusto per capirci, una bottiglia di vino rappresenta circa 9 unità di alcol: vuol dire che 007 si fa fuori qualcosa come 10 bottiglie la settimana, roba da sbronza perenne. Un giorno si è spinto perfino a 49,8 unità di alcol, una quantità da stroncare chiunque. Altro che eroe.
Il responso dei tre ricercatori è impietoso: "Il livello di assunzione di alcol di James Bond lo mette ad alto rischio di malattie multiple alcol correlate e di una morte precoce. Il livello di attività mostrato nei libri è incompatibile con le prestazioni fisiche, mentali e perfino sessuali attese da chi beve così tanto alcol". Terribile. Un cattivo maestro, non c'è che dire.
[Angelo Peretti]
A volte, i dettagli sfuggono. Soprattutto se in primo piano c’è qualcosa di appariscente. Ora, il fatto che Carlin Petrini presenti un suo libro in pubblico non c’è dubbio che attragga l’attenzione molto di più dei marchietti degli sponsor dell’appuntamento. Però in certi casi anche dettagli come questo possono pesare. Per esempio, a Verona per la presentazione dell’ultimo libro di Carlin Petrini si è costituita una curiosa alleanza, e la si notava da un dettaglio, appunto. Sulla locandina compariva i marchietti seguenti. Primo, la Fivi, Federazione italiana vignaioli indipendenti, e ci sta che i vigneron siano al fianco del profeta del “buono, pulito e giusto”, che in qualche modo, almeno idealmente, ha ispirato la loro nascita (e che non dicano di no, perbacco!). Secondo, Slow Food Veneto, e ci mancherebbe altro che la struttura veneta del movimento della chiocciolina non si stringesse attorno al proprio padre fondatore. Terzo, le Famiglie dell’Amarone, e qui faccio un po’ più fatica a capire, ma indubbiamente il sodalizio è strapieno di produttori che devono molto a Slow Food, che insieme al Gambero Rosso ha fatto decollare il fenomeno amaronista con una sfilza di “tre bicchieri” tributati a molti di loro. Quarto – attenzione attenzione -, Vinitaly. E che ci azzecca la fiera veronese del vino?
Intendo, libera VeronaFiera e libero il management di Vinitaly di sponsorizzare o patrocinare chi vogliono, ma in genere quel marchietto viene concesso con una fatica che non ti dico. Che ci sia una qualche partnership della fiera scaligera con Slow Food è noto. Ma stavolta il marchietto è finito stampato nella promozione di un evento insieme con i logo della Fivi e delle Famiglie dell’Amarone, che nel contesto della produzione vinicola veronese hanno assunto posizioni che credo si possano definire abbastanza oltranziste: a Soave, lo statuto dei vignaioli indipendenti stabilisce che se tu produttore vuoi usare il marchietto della Fivi devi essere fuori dal Consorzio, in Valpolicella le Famiglie dell’Amarone hanno più volte espresso posizioni opposte e intransigenti rispetto alle determinazioni del Consorzio di tutela. Insomma, Verona è la capitale italiana del vino a denominazione, una vera e propria portaerei, e la fiera veronese del vino - il Vinitaly - ha dato il proprio marchio a un’iniziativa che ha visto come partner le realtà più avverse a chi rappresenta la gran parte della produzione veronese a denominazione.
Non ne traggo alcuna morale, perché questa non è una fiaba, e la morale sta solo in fondo alle fiabe. Dico solo che quello che ha caratterizzato la presentazione del libro di Carlin Petrini è un inedito accostamento di emblemi e di maniere di pensare il vino e il suo business. Spesse volte le bizzarrie non nascono per caso. Sono in vista nuovi equilibri dentro al mondo del vino veronese?


[Angelo Peretti]
La doc Valpolicella è un castello fragile. Dichiarazione pesante. Ma non è mica mia. È del leader quasi assoluto della denominazione. Che sta a Soave. Già, la Cantina di Soave controlla il 49% della produzione delle uve valpolicellesi, mica scherzi, e la frase è di Bruno Trentini, direttore generale della mega cooperativa soavese. Alla presentazione dei (floridi) dati di bilancio, il general manager ha voluto evidentemente togliersi qualche sassolino dalla scarpa, perché par di capire che non ci sta a sentire chi accusa la cooperazione di svilire la quotazione dell’Amarone. Ogni riferimento alle Famiglie dell’Amarone è ovviamente voluto, in questo caso.
Trentini sostiene che la Cantina la sua parte la fa “mettendo a riposo solo il 20% delle uve”. Il disciplinare permetterebbe di spingersi molto più in là.
Cito testualmente il disciplinare: “Per la produzione del vino Amarone della Valpolicella si dovrà attuare la cernita delle uve in vigneto, secondo gli usi tradizionali mettendo a riposo un quantitativo di uve non superiore al 65% della produzione massima ad ettaro prevista”. Ripeto: il disciplinare permetterebbe di arrivare al 65%. Che succederebbe all’Amarone se la Cantina di Soave si spingesse fin lì, scavalcando di netto la sua attuale percentuale del 20% di uve messe ad appassire?
Dice poi Trentini che l’area della Valpolicella è una di quelle - riporto la frase come l’ha scritta il quotidiano L’Arena - “che vanno meglio in Italia e questo non è scontato: non vorremo che l'egoismo di pochi provochi il disastro di molti, bisogna evitare estremismi con una gestione della denominazione all'insegna della solidarietà e della condivisione e con controllo delle quantità”. E poi, a suo avviso, alla fin fine è stato il clima che, riducendo la produzione, ha tolto le castagne dal fuoco quest’anno, ma per il futuro serve che la filiera decida cosa fare, perché "la doc Valpolicella è un castello fragile".
[Angelo Peretti]
La Cantina di Soave è quel che si può definire un colosso. Produce, da sola, il 43% del Soave Classico, il 48% del Soave doc e il 49% del Valpolicella. Ha anche il 70% del Lessini Durello, ma quella è poca cosa rispetto alle dimensioni delle doc soaviste e valpolicelliste. Poi, se non ho capito male, è leader delle bollicine in autoclave ed è la quinta azienda italiana per la spumantistica. Ha duemiladuecento soci che, insieme, possiedono qualcosa come seimila ettari di vigneto. Impressionante.
Sono stato alla presentazione del bilancio dell’esercizio 2012-2013. Hanno liquidato ai soci, per le uve, il 29% in più dell’anno prima e hanno mantenuto sostanzialmente stabile il fatturato (intorno ai 100 milioni, mica noccioline) pur a fronte di una vendemmia 2012 che ha portato in casa il 32% di uva in meno, il che vuol dire che hanno venduto meglio. Adesso mirano a espandersi, gradualmente, sul mercato americano, e per questo hanno messo in piedi una società nel Massachusetts, la Cantina di Soave Usa, perché, come ha ricordato il direttore generale Bruno Trentini, da quelle parti spopola il Pinot Grigio, che non è “strategico”, mentre lo è – ovviamente - la denominazione bianchista aziendalmente più significativa, che è appunto il Soave. Per trasformare, pian piano, il Soave nel bianco italiano anti Pinot Grigio, hanno deciso di investirci, negli States, 8-900mila euro l’anno. Progetto ambizioso.
[Angelo Peretti]
Tre le poche cose certe della vita ci sono i calendari, e ovviamente ecco arrivati quelli per il 2014. Con le vignaiole austriache che si spogliano tra filari di vite e vasche d'acciaio. Anche quest'anno. Eh, sì, il Jungwinzerinnen Kalender è arrivato puntuale anche stavolta, con le foto virate seppia di giovani produttrici vinose d'Austria in lingerie. Casto vedo e non vedo, d'accordo. Ma di successo. Tant'è che è l'undicesimo anno di fila che le giovani rampolle delle casate enoiche del Niederösterreich, dello Steiermark, del Burgenland e della zona di Vienna si prestano a rappresentare il mondo del vino austriaco in maniera "modern-sexy", come dice la rivista on line Style.at (oh, lì, sul sito del magazine, ci si vedono anche le immagini della presentazione del calendario, tra i vigneti, con le fanciulle in reggiseno e mutandine accompagnate da genitori e morosi).
Se vi va di provare il sottile brivido di bervi un Grüner Veltliner o un Riesling austriaci accompagnati dal "quasi" nude look delle ragazze di cantina, be', potete sempre comprarvi il calendario sul sito di Kreativ Consulting, l'agenzia che ha realizzato l'operazione. Ne hanno tirate solo 4mila copie. A 25 euro l'una. Sul sito c'è anche la preview di una serie di foto, sappiatelo. Così, per dire.
[Angelo Peretti]
Non sono, in linea generale, un fan degli orange wine, dei vini arancione, insomma di quei bianchi più o meno bioqualcosa che, per le loro lunghe macerazioni, assumono una colorazione che vira verso il dorato. Però. Però a volta ti trovi nel bicchiere un vino arancio che ti prende. M'è successo per esempio con il Don Chisciotte fatto in Alta Irpinia, a Calitri, provincia d'Avellino, dall'azienda agricola di Pierluigi Zampaglione. Un Fiano igt della Campania, fatto (l'ho letto) ad altitudine elevata.
Me l'ha spedito il produttore, con allegato un foglio a righe di quelli da quadernone con vergata sopra a mano, a penna nera, questa descrizione: "100% fiano, allevamento guyot, 6000 piante ad ettaro, 2 ettari vitati del 2002. Produzione 35/40 quintali ad ettaro. Vendemmia ad ottobre. Macerazione sulle bucce, 12 mesi in acciaio più 6 mesi in bottiglie. Certificati sulle uve dalle Bioagricert. Socio Fivi". Descrizione succinta, ma esaustiva. Che dice in poche parole molto sul vino e sulla filosofia di casa (prima volta, giusto per dire, che mi vedo scrivere "socio Fivi" come elemento distintivo).
In verità, di bottiglie me ne ha mandate due. Di due annate differenti, il 2010 e il 2011. Qui di seguito ecco come le ho trovate, premettendo però tre constatazioni. La prima è che si tratta di due vini diversissimi come il giorno e la notte, accomunati però da una tesa freschezza. La seconda è che comunque per entrambi consiglio una temperatura di servizio non bassa: trattateli come dei rossi, mica come dei bianchi. La terza è che tutt'e due hanno retto l'apertura in maniera strepitosa: il giorno dopo erano non solo in forma, ma anzi ancora più seducenti.
Fiano Campania Don Chiosciotte 2011 Pierluigi Zampaglione
Colore dorato di media intensità, torbidino alla vista. Ha i frutti gialli maturi, a tratti anzi stramaturi, come s'usa per certa frutta antica di campagna e di bosco. Grassi. Con cenni agrumati d'arancia bionda. Eppoi una vena sottile di mentuccia e finocchietto, e bella freschezza. Finale asciutto e persistenza fruttata. Occhio, è da prendere com'è, un orange wine, con caratteri "naturali" dei vini macerati: fruttone epperò anche una certa dose di rusticità, che tuttavia il tempo affievolisce. Notevole, credetemi, per gli amanti del genere.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Fiano Campania Don Chisciotte 2010 Pierluigi Zampaglione
Agli antipodi, stilisticamente, rispetto al 2011. Colore giallo dorato limpidissimo e brillante. Il profumo è quello, sottile, di certi fiorellini gialli di campo, di scarpata, che si fanno essiccare: non me ne sovviene il nome, ma credo che ci siamo capiti. In bocca è fresco, quasi salato, e asciuttissimo, e austero. Mi ricorda a tratti il tè verde, oppure, appena accennato, quello al gelsomino. Ed è terso come certe limpide giornate montanare, ed ha esile affumicatura. Per me - ascoltatemi - è un grande bianco, tra i migliori tastati in Italia.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
[Angelo Peretti]
Se vi prendete una breve vacanza a Monaco di Baviera o se siete là per lavoro, insomma, se a Monaco ci andate per qualunque motivo e avete voglia di mangiare cucina bavarese e bere birra bavarese, be', eccovi qua un consiglio: l'Andechser am Dom, proprio dietro il duomo. Ci sono stato due volte, e mi ci sono trovato un gran bene, e mi sono fatto delle gran mangiate (serali) di salsicciotti artigianali (attenzione, salsicciotti, non würstel) e la notte non ho avuto alcun problema a dormire come un sasso. E poi ci sono piatti a base di carne proveniente da allevamenti selezionati dal proprietario, e devo dire che anche in questo caso la qualità l'ho trovata eccellente.
Il posto è proprio bavarese in tutto, anche nella clientela: di turisti ce ne incrociate davvero pochi. Si mangia, come si usa da quelle parti, a tavoli comuni con altri commensali. Ci sarà chi prende un paio di piatti, chi semplicemente tracannerà qualche birra. In maniera informale, com'è tradizione in Germania, dove non esistono i riti ristorativi italiani.
A consigliarmi il locale è stata una giornalista tedesca, Monika Kellermann, che mi ha anche insegnato un trucco: se hai voglia di bere birra (che qui è buonissima), mai ordinarla media o grande, ma piuttosto chiedere una in fila all'altra due o tre birre piccole. Perché? Per due motivi: il primo è che si scalda meno, ovvio, e il secondo è che è migliore la pressione, o almeno così sono convinti i tedeschi, che hanno anche dato a questa abitudine di andare avanti a birre piccole un nome che non ricordo. Ho provato: cavolo, è proprio vero, o quanto meno questa è la mia impressione.
Insisto: se siete a Monaco, andate. Ma bisogna prenotare, ché lì è sempre strapieno.
Andechser am Dom - Weinstraße 7a - 80333 München - tel. +49 (0)89 24292920

Regali - C come decanter

14 dicembre 2013
[Angelo Peretti]
oh, sì sì, questo è uno dei più bei decanter che io abbia mai visto. È il Grand Finale della Chef & Sommelier, un brand della Arc International. Una C che fluttua nel cielo, un semicerchio pennellato, un fossile di cristallina conchiglia d'epoca remota, una capriola giocata in trasparenza, un corno d'animale di misteriose savane, un capolavoro. Per favore, ditemi chi è il designer.
La bellezza ha dei costi: su Amazon (tramite Amazon, in realtà) è in vendita a 209 euro, che non sono pochi.

Sapete cos'è il bundling?

13 dicembre 2013
[Angelo Peretti]
Ma voi lo sapete cos'è il bundling? No? Be', per forza, se non siete commercianti di vini famosi e costosi è difficile che lo sappiate. Diciamo che in Italia si potrebbe tradurre come "pacchetto", o qualcosa del genere. Funziona così: per esempio, vuoi una certa fornitura dell'ambitissimo Lafite? Allora devi comprare anche Rieussec e altri vini che sono della stessa proprietà, ma che hanno meno appeal: in questo modo ti garantisci la fornitura desiderata di Lafite. E così fanno anche altre celebri case vinicole.
Lo spiega Max Lalondrelle, direttore acquisti della Berry Bros & Rudd - una delle maggiori aziende distributrici di vino al mondo - rispondendo alla domanda di un lettore di Decanter (il numero è quello di dicembre).
"Tutti i mercanti che prendono parte alle campagne en primeur di Bordeaux - dice Lalondrelle - sono assogettati a questa pratica da parte degli châteaux. Non siamo costretti a comprare i vini meno vendibili per avere quelli che si vendono meglio, ma ci è chiaro che se non lo facciamo ci saranno poche chance di avere quel che ci serve in futuro".
Ecco, questo è il bundling. Ed è perfettamente legale. Potrà anche non piacere, ma fa parte delle regole della contrattazione.
[Angelo Peretti]
Li chiamano "les tubes", i tubi. Sono in effetti dei tubetti di vetro serigrafato, chiusi col tappo a vite. Somigliano a delle provette da laboratorio. Contengono 10 centilitri di vino, l'equivalente di un bicchiere. Sono la nuova frontiera per i wine lover. E attenzione: mica ci va dentro vino ordinario. Accidenti, questi qui sono tubicini di signori vini, e qualcheduno appartiene addirittura al mito dell'enologia francese.
Perché, sì, il vino nel tubo è nato in Francia. Si trova in vendita anche on line, sul sito - appunto - della "Wine in Tube", che è la società che ha ideato il business: il sito ha il nome (inglese) di "Drink in Tube", e dice che è "la boutique en ligne des grands vins au verre", il negozio on line dei grandi vini a bicchiere.
La serigrafia che sta sopra al vetro riproduce l'etichetta. C'è roba di questo genere, giusto per capirci: la Coulée de Serrant 2007 di Nicolas Joly, il Margaux 2008 di Château Kirwan, il St.-Julien 2009 di Château Beychevelle, il Pessac Léognan 2006 di Château Latour Martilacc, roba così, perbacco! Oh, poi e non ve li tirano mica dietro, 'sti vini: venduti in genere in scatole da 15 provette (l'equivalente di due bottiglie o di una magnum, fate voi), i prezzi sono abbastanza impegnativi. Per dire, i quindici tubetti della Coulée de Serrant vengono 210 euro, caspiterina.
Che dite? Se il business funzionerà? E che ne so io? Sinceramente, ho dei dubbi, però è comunque una genialata, e auguro tanta fortuna a chi se l'è inventata.
[Angelo Peretti]
Com'è che certi bianchi sanno di mare? Sanno proprio di brezza marina, di acqua salsa, di iodio, di risacca, di alghe e scogliere. In maniera netta e inconfondibile, e ti scavano dentro il ricordo - la nostalgia - di passeggiate mattutine sulla spiaggia umida. Questo intendo quando dico che sanno di mare, che sono marini. Non riesco a capacitarmene. Eppure ne sono assolutamente affascinato.
Ce ne sono due, in particolare, che ogni volta che ho la fortuna di berli mi stupiscono, mi intrigano. Posso dire che li trovo commoventi? Ebbene sì, vini commoventi, e pazienza se qualcuno si burlerà di queste parole.
Il primo è italiano. È ligure. Il Cinqueterre di Forlini Cappellini. Uve di bosco, albarola e vermentino, i ceppi più vecchi con settant'anni sulle spalle. Per me, uno dei più grandi bianchi che si producano in Italia. Ho riassaggiato il 2011 ed è, appunto, assolutamente mare, purissimo mare. Straordinario.
L'altro è francese. Il Coteaux du Vendômois del Domaine de Montrieux. Loira. Uva di chenin blanc. Sa di ricci di mare. Proprio di ricci di mare. Il vigneron è Emile Heredia, seguace della filosofia biodinamica. L'ho incontrato qualche tempo fa e gli ho detto di questa mia impressione. Ha sorriso. Mi ha risposto che non c'entra nulla, ma tra le sue vigne ha rocce che contengono fossili di antichi progenitori dei ricci marini. Ripeto: non c'entra nulla. Ma non è suggestione. La storia dei fossili non la sapevo, e questo vino l'ho sempre trovato fascinosamente marino. Ho appena ribevuto il 2009, e di nuovo, come per il bianco ligure, devo usare l'espressione "straordinario".
Cinqueterre 2011 Forlini Cappellini
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Coteaux du Vendômois 2009 Domaine de Montrieux
Tre lieti faccini :-) :-) :-)