[Angelo Peretti]
Considero le doc un bene collettivo e un valore da difendere per un territorio vinicolo. Però mi ha fatto molto pensare l'intelligente commento che un vignaiolo (e blogger) che stimo come Gianpaolo Paglia ha lasciato su un mio intervento relativo alla flessione dell'export vinicolo italiano registrato nel primo trimestre del 2013. Per chi non abbia voglia o tempo di andare a cercarsi il post, dico che Gianpaolo, nei dati flettenti dei volumi dell'export e nel contestuale incremento in valore trova, a suo dire, una "conferma del fatto che le politiche
di controllo dell'offerta" hanno generato un mix per il quale "siccome alcuni vini hanno
passato la soglia di prezzo nelle quali erano competitivi, i clienti
hanno smesso di comprarli, o hanno comprato sfusi da imbottigliare". E poi, aggiunge che quelli che si sono verificati sono "aumenti di prezzo medi molto alti, frutto delle politiche protezionistiche e di indirizzo di mercato (oltre che da fatti meteorologici),
che guardano solo al profitto immediato (meno vino in circolazione =
prezzi più alti) senza valutare gli effetti sul medio termine, che
si stanno traducendo in una sostituzione di questi prodotti con prodotti
meno cari provenienti da altre parti o sostituendo il prodotto a maggior
valore aggiunto (la bottiglia) con quello a minore valore aggiunto e di
immagine (come lo sfuso)".
Sono parole che mi pongono un interrogativo: dobbiamo forse abbandonare le doc? La domanda non mi pare così peregrina se stabilissimo come principio che la difesa del prezzo è un disvalore. Lo dico perché il decreto legislativo 61 del 2010, la nuova "legge quadro" sul vino insomma, indica tra i ruoli dei consorzi di tutela, accanto alla promozione, anche la "regolazione del mercato", mediante proposte da formulare alla regione d'appartenenza, e il mercato è noto che lo si regola con l'obiettivo di sostenere il prezzo attraverso la riduzione dell'offerta.
Occorre dunque invece lasciare le doc libere di fluttuare nel prezzo a piacimento delle scelte mercantili e - aggiungo - anche delle manovre speculative? Non lo so, non credo. Ritengo che un conto sia parlare di vino in assoluto, considerandolo una commodity, un bene di consumo, e in tal caso sono d'accordo sul "no" alle spinte protezionistiche (tant'è che sono tra i pochi ad esprimersi per la liberalizzazione dei diritti d'impianto), e un altro considerare un vino a denominazione d'origine, per sua natura più raro e limitato, e dunque a mio avviso bisognevole di qualche forma di protezione.
In caso contrario, temo che non avremmo che due scelte disponibili: dare libero sfogo alla crescita spontaneistica di ogni doc, con il rischio tuttavia di metterle in mano alla sola parte industriale e comunque di piantar vigne in zone che non sono per nulla adatte, oppure abbandonare le doc, non più consone ad affrontare il mercato globalizzato. Né l'una, né l'altra opzione mi piacciono, né mi sembrano efficaci. Ma non posso fare a meno di interrogarmi.
Ciao Angelo. Io sono sempre stato orgoglioso del mio paese e quindi della mia denominazione.
Da un po' di tempo ho scelto di fare vini da tavola.
Le denominazioni (almento in Italia) non garantiscono la qualità di un prodotto e da un po' di anni a questa parte grazie ad enti di certificazione privati e obbligatori, le certificazioni garantiscono costi molto più alti.
Dallo scorso anno certificano anche le i.g.t., un mare di soldi che entra nelle casse delle aziende di certificazione.
Tutti questi costi poi i produttori li devono mettere nella bottiglia.
Inoltre il decreto erga omnes dello scorso anno ti obbliga se fai vini d.o.c. ad associarti al consorzio (un tempo volontario), e ancora esborso di soldi.
In Francia ci sono tre enti obbligatori che controllano il vigneron. In Italia il vignaiolo è controllato da 11 enti obbligatori se fa vini i.g.t. o d.o.c. più un'ente volontario se certifica i vini bio.
E quindi pagando, e rispettando i requisiti della certificazione ovvero, grado minimo, provenienza delle uve, resa per ettaro e acidità minima, ottieni la denominazione, anche se il tuo vino non è espressione di territorio.
Una delle prime volte che ti incontrai mi dissi: lo Chateauneuf du Pape è fatto da un milione di uve diverse, eppure lo riconosci subito.
Sfido chiunque a riconoscere il terroir in un vino d.o.c. Venezia o d.o.c. Sicilia.
Credo che nel sistema italiano delle doc si siano aperte delle impressionanti falle, avendo subito evidenti alterazioni sotto la spinta politica e mercantile. Di fatto, in taluni casi la doc è stata interpretata alla stregua di un mero marchio commerciale, anziché come l'espressione massima di un'identità territoriale. A parziale giustificazione vi è solo la constatazione della giovanissima età di tale impianto: il sistema delle doc italiane nasce solo negli anni Sessanta. Vi si potrà porre rimedio? Non lo so. So solo che il mondo sta cambiando rapidamente e cambierà ancora di più.
Il problema sta in quanto le doc siano significative rispetto al prodotto: 1) ci sono DOC che ammettono la vendita di prodotto sfuso: il consumatore può pensare che sfuso o imbottigliato non faccia poi la differenza 2)Tante DOC non garantiscono effettivamente la qualità che promettono, a causa di limiti piuttosto laschi 3) Molte DOC non riescono a diventare marchio e quindi a fare davvero la differenza in termini di immagine. Questo perché all'interno si possono trovare prodotti molto diversi non solo per qualità ma anche per tipologia, cosicché il consumatore non riesce a orientarsi in base alla denominazione.
Più che da abbandonare il sistema delle DOC andrebbe ripensato con maggior serietà e con la consapevolezza che se "una doc non si nega a nessuno" alla fine i vantaggi che essa può offrire saranno negati a tutti.
Mi sfugge il nesso. "Sfuso doc" non è una contraddizione in termini.
@Marta. In effetti, Nic non ha torto: quali sono le doc che permettono la vendita di vino sfuso? Per quel che riguarda poi il secondo punto, una doc non è un indicatore di qualità, bensì di origine, e comunque il concetto di qualità è abbastanza indefinito. Sul terzo punto sono perfettamente d'accordo, e credo che il problema stia proprio nel fatto che troppe doc non diventano "marchio", non hanno connotazione identitaria, non sono riconoscibili.
Proviamo ad immaginare uno scenario ipotetico, non reale ma realistico e possibile.
Pensiamo che vi sia una DO (DOC/DOCG o DOP) posta su un territorio di 10.000 ettari di superfice, che comprendono anche fondi valle, colline alte, diverse localizzazione, non tutte ovviamente adatte a vigneto. Poniamo che, da un analisi neanche troppo complessa e dettagliata, basata su quote altimetriche (con limiti in alto e in basso), pedologiche e geologiche (da mappe geologiche) e di esposizione (nord, sud, ecc.), si determini che all'interno di quella denominazione i vigneti possano essere piantati all'incirca nel 20% della superfice teoricamente disponibile, con una certa garanzia che i vini prodotti da quelle uve possano rappresentare le caratteristiche che fanno di quella DO un prodotto unico, dotato di identita' e capace di competere sui mercati. Gli affianchiamo un disciplinare rigoroso, con uve, rese, sistemi di coltivazione che abbiano un senso per dare identita' maggiore e maggiore qualita'.
Una volta disegnato questo scenario abbiamo dunque:
a) una zonazione piuttosto razionale e basata su fatti e analisi, della zona di coltivazione (nel nostro caso massimo 20%, quindi 2000 ha)
b) un disciplinare ben fatto e chiaro
con questi presupposti la denominazione si avvia verso un cammino di vera garanzia di provenienza, identita' territoriale e qualita'.
Non si puo' e non si deve chiedere di piu' ad una Denominazione di Origine, il resto lo devono fare i produttori, coloro che decidono di investire i loro soldi in attivita' imprenditoriale (che e' rischiosa e difficile per definizione) e i consumatori, che all'interno di un ventaglio di scelta che e' delimitato da delle regole certe, possono premiare chi produce meglio, chi riesce a produrre con dei costi minori, chi e' piu' bravo in una parola.
E' un utopia? Io non credo. Se ci si desse un orizzonte temporale di 30 anni, che nel vino sono un tempo giusto, nei quali i disciplinari vengano ridisegnati con razionalita', sia di regole che di aree geografiche, con contributi per coloro che hanno vigneti al di fuori delle aree "ridefinite" e che desiderano rilocalizzarle o uscire dal ciclo produttivo, alla fine di questo percorso avremmo delle DO significative, giuste, e in grado di competere nel mondo.
Ci sono molti spunti in piu', a partire dall'abominevole idea del "controllo di mercato" che fa acqua da tutte le parti, ma mi fermo qui, sperando che si possa aprire una discussione su questi temi.
Angelo, scusa, in effetti avevo dimenticato il punto interrogativo alla fine della frase. :-( Però il messaggio è arrivato. Ho visto discussioni fino a pochi mesi fa riguardo a DOC che non consentivano il tappo a vite e poi scopro che si può vendere sfuso? Sono un po' confuso.
Giampaolo ti applaudirei, non fosse che mi sentirei un idiota a farlo davanti ad un video, soprattutto per "l'abominevole idea del controllo di mercato che fa acqua da tutte le parti". Ma le commissioni di assaggio servono? Non dovrebbero piuttosto essere sostituite da analisi di laboratorio, una volta stabiliti dei valori di riferimento per quella doc specifica?
A me risulta che i vini DOC non possono essere venduti sfusi al dettaglio.
Ma siccome non mi occupo più di vini certificati, potrei anche non essere aggiornato.
Credo che per sfuso s'intenda vino Doc già confezionato in dame da 5 litri, che poi andrebbe imbottigliato da chi acquista.
Il vino confezionato in dame è imbottigliato, non sfuso.
...è lo stesso sfuso che compri in azienda; disponibile poi in altri esercizi commerciali, in dame da 5 litri.
Altrimenti di che sfuso doc parliamo?
Lo sfuso è il vino venduto, appunto, sfuso a privato, non il vino confezionato, che risulta come imbottigliato, a prescindere dalla dimensione del contenitore. Concordo con la domanda: di quale sfuso doc parliamo?
Per sfuso io intendo un vino che viene venduto nei recipienti che si porta il cliente da casa, siano essi classica "dama" da 5 litri o damigiane di formati maggiori. E se anche voi intendete sfuso in questa maniera allora, a titolo di esempio, possiamo parlare di DOC Custoza, che consente la vendita di vino certificato in questo modo.
Ricongiungendomi ai discorsi di cui sopra, trovo che i disciplinari (riferendomi sempre al mio amato Custoza) abbiano una elasticità quanto mai estrema in termini di percentuali di "composizione" del vino (parlando delle sole varietà obbligatorie che già sono tre), che si traduce poi in un "minestrone" di uve aggiungendo anche le facoltative (6 varietà), che credo rendano praticamente impossibile l'identità territoriale. O forse è questa la tipicità nel caso di DOC che prevedono uvaggi?
Lorenzo