Doc: voglia di anarchia o di ordine?

14 ottobre 2013
[Angelo Peretti]
Sono stato a Skywine, la manifestazione sul vino trentino che si tiene ad Ala. Ci sono stato come relatore, uno dei tanti del lungo e originalissimo worshop non stop dal mattino al tardo pomeriggio. Ero in una sessione titolata con un doppio, significativo interrogativo: "Voglia di anarchia o voglia di ordine? Leggi e disciplinari aiutano o penalizzano la viticoltura?"
Ecco, non pretendo di aver detto cose definitive, ultimative. Ma mi permetto di ripeterle qui su InternetGourmet. Un po' ora, un po' domani.
Ho cominciato dicento che sono sempre stato e resto convinto che la denominazione di origine sia un bene collettivo. Quando dico “bene” lo intendo sia in termini economici, sia in termini culturali, con riferimento ad uno specifico territorio e ad una collettività di persone che vivono su quel territorio.
Tuttavia, le denominazioni sono regolate da disciplinari e da normative che talvolta rischiano di creare problemi alla valorizzazione di questo bene collettivo inteso nella sua duplice accezione.
Nato negli anni Sessanta, quando il vino italiano necessitava di uscire dalla sostanziale anarchia produttiva dell’epoca e dunque abbisognava di una regolazione che andasse verso un miglioramento qualitativo della produzione, il sistema nazionale delle denominazioni di origine risente tuttora di quell’impostazione originaria. È infatti pieno di vincoli tecnici che poco o nulla hanno a che vedere con la valorizzazione dei caratteri identitari di un territorio vitivinicolo.
Penso, giusto per fare un esempio, all’astrusa indicazione del numero minimo di ceppi per ettaro e della resa massima in vino per ettaro, senza che sia posta alcuna correlazione fra i due parametri: è facile capire che, in termini qualitativi, c’è una bella differenza se produco 120 quintali di uva su un ettaro a 3000 ceppi o se produco sempre 120 quintali, ma su un ettaro a 6000 ceppi.
Va poi osservato che gli stessi Consorzi di tutela hanno armi veramente spuntate quando si tratti di mirare all’obiettivo della valorizzazione identitaria di un territorio: per esempio, nulla o quasi nulla possono fare in termini di effettiva selezione vocazionale dei terreni, soprattutto ora che ci si trova di fronte ai risultati di quella proliferazione viticola che tra gli anni Ottanta e Novanta, in presenze di regole molto labili e facilmente impugnabili, ha visto piantare vigne su terre assolutamente inadatte, originando tuttavia una rete di “diritti acquisiti” che appare ora invalicabile.
Non solo. Applicare in Italia concetti francesi quali quelli di cru o di lieu dit è pressoché impossibile, perché i burocratismi italiani regolano in maniera meccanicistica la produzione delle cosiddette “sottozone”, alla faccia di qualunque valutazione di carattere storico, identitario, qualitativo.
Lo stesso quadro ampelografico delle denominazioni è regolato in maniera meccanicistica e burocratica, per cui è più facile aggiungere un nuovo vitigno al disciplinare che aprire ai vignaioli la possibilità di utilizzare liberamente i vitigni esistenti. Una situazione, questa, che risente ancora dell’impostazione degli anni Sessanta e che è assurda se si pensa che là dove si è fatta la storia delle classificazioni viticole questi vincoli non esistono: a Bordeaux si riconoscono i vitigni tipici, ma nessuno penserebbe mai a dire a un produttore quanto cabernet o quanto merlot deve usare per fare il suo vino sui suoi cru.
Il quadro normativo nazionale aggiunge ulteriori vincoli, ancora una volta burocratici. Cito il caso del “mio” Bardolino Chiaretto: nonostante la volontà della filiera, non possiamo confezionarlo in bag-in-box solo perché il termine Chiaretto è incluso in un allegato – quello delle “menzioni aggiuntive” - al decreto legislativo 61 del 2010, che regola il settore vitivinicolo italiano, e che per tutti i vini che rechino quelle “menzioni aggiuntive” impone delle anacronistiche limitazioni.
Questi e altri tecnicismi molto spesso finiscono per alimentare non già la ricerca della massima espressione identitaria di un territorio, bensì una mediocrità che risponde quasi solo a logiche mercantili massive, involontariamente favorite anche dai giudizi espressi dalle “commissioni di assaggio” degli enti terzi di certificazione, che, nel nome di una presunta e mai definita “identità”, accendono il semaforo verde per i vini più appiattiti sulla mediana valoriale e troppe volte mettono invece in discussione i vini più ricchi di personalità territoriale.
Dunque, leggi e disciplinari aiutano o penalizzano la viticoltura?
Non la penalizzano se la filiera è pronta ad adeguarli, sempre ammesso che esistano i mezzi giuridici per farlo, man mano che ci sono necessità di salvaguardia identitaria indotti da fattori esterni, quale è ad esempio il cambiamento climatico in corso, che obbliga i vignaioli a inventarsi quotidianamente fantasiosi artifici per stare dentro alle rigide norme del disciplinare: penso ad esempio al parametro dell’acidità, quanto mai anacronistico.
Non sono invece a mio avviso accettabili quei cambiamenti di regole orientati esclusivamente a “inseguire il mercato”: penso ad esempio, per quello che riguarda il “mio” Bardolino, all’assurdo inserimento del cabernet sauvignon nel disciplinare attuati all’inizio degli anni Duemila, voluto solo perché in quel periodo andava di moda il cabernet sauvignon, che tuttavia marca profondamente i vini.
I disciplinari, insomma, vanno interpretati come un legame alla tradizione di un certo territorio, da intendersi come un valore identitario che ha certamente bisogno di manutenzione, ma non di forzature.
Sono quindi un plus, non un peso.

4 commenti:

  • Stefano Menti says:
    14 ottobre 2013 alle ore 06:42

    Secondo me il problema di fondo sta nella non conoscenza dei settori in ogni campo nel nostro Paese da parte dei burocrati e legislatori che dovrebbero averne competenza.

    Attraverso un sistema clientelista e non meritocratico vengono scelti i vertici che dovranno fare le scelte. Ed ecco trovare il cabernet nel Bardolino.

    Per questo, almento per me, alcuni/sempre di più produttori fuggono dai controlli.Con mio immenso dispiacere.

  • Angelo Peretti says:
    14 ottobre 2013 alle ore 07:41

    @Stefano. Non concordo con la tua visione delle cose. Piuttosto, penso che periodicamente via sia un'ubriacatura collettiva di "mercato" che è invece solo moda effimera. Fuggire, poi, è sempre un errore, simile a quello di copiare modelli altrui, che è pure una fuga.

  • Gianpaolo says:
    14 ottobre 2013 alle ore 10:21

    Se si vuole riformare davvero il sistema delle denominazioni, a mio avviso si dovrebbe:
    - operare un opera di sfoltitura. Gia' oggi l legge prevede che DO non rivendicate o poco rivendicate siano cancellate dopo un certo numero di anni. Che io sappia questa legge e' stata poco o nulla applicata
    -riqualificare i vigneti. Questa e' un opera che puo' sembrare titanica, ma potrebbe essere affrontata mediante contributi ad hoc (togliendoli da altri capitoli come le distillazioni, gli arrichimenti, e utilizzando quelli della vendemmia verde e dei rinnovi e reinnesti). Ci si deve porre sullo scenario medio - lungo, i venti o anche i trenta anni (che non sono tanti quando si parla di viticoltura) e favorire l'uscita dal ciclo produttivo delle vigne localizzate in terreni non di qualita', oppure il loro reimpianto in zone piu' vocate.
    -ammettere l'uso di vitigni "non tradizionali" solo per le menzioni geografiche (IGP - IGT). A meno che la storia non sia cinquantennale o piu', togliere i cabernet, i syrah, i merlot, ecc., dai nostri vini a denominazione di origine. Ma come, si vuol difendere la tradizione e la tipicita' e poi si lasciano "cadere" il 15, il 20 % e chissa quanto ancora di uve che non c'entrano niente con i nostri sangiovesi, nebbioli, ecc.? Sarebbe un contributo enorme alla chiarezza, alla comunicazione e al marketing, oltre che ovviamente nella sostanza dei vini.
    -le commissioni di assaggio devono essere riformate, in modo da ammettere solo la presenza di esperti (basta con i sommelier della domenica), che non operino in condizioni di conflitto di interesse. E comunque l'80% del giudizio di idoneita' deve essere su base analitica, anche con i mezzi che oggi sono sempre piu' a disposizione.
    - si devono semplificare gli adempimenti burocratici e abbattere sensibilmente i costi dei controlli e della burocrazia, oggi divenuti insostenibili per le aziende.

  • Angelo Peretti says:
    14 ottobre 2013 alle ore 21:59

    @Gianpaolo. Grazie per il tuo prezioso, illuminato contributo. Temo tuttavia, concretamente, che appaia utopistico per gli standard italiani.

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