Le sfumature del grigio (il pinot)

18 febbraio 2013
[Angelo Peretti]
Posso scommetterci: se andate in Trentino a sentir parlare di vino, vedrete che il discorso cadrà per forza sui vitigni. Sul pinot grigio, in particolare, delizia (economica) e croce (identitaria) della realtà viticola tridentina, specie la realtà cooperativa. Ecco, lo dico subito, a scanso di equivoci sul mio punto di vista: credo che se c'è un problema trentino del vino - magari non c'è nessun problema, vallo a sapere -, allora è l'eccessiva, quasi ossessiva concentrazione sui vitigni. Un'ossessione che rischia inevitabilmente di fare una vittima: l'identità territoriale del vino. Per me, che sono terroirista ad oltranza, il vitigno è invece un falso problema. Perché ritengo sia giusto rifletterci sopra, ma solo ed esclusivamente per considerarlo uno strumento: ecco, il vitigno è uno degli strumenti con cui il vigneron produttore mette in bottiglia la propria maniera di leggere l'appartenenza ad un territorio e ad una comunità di persone che su quel territorio ci vivono. Uno strumento per interpretare il senso del terroir. Nulla di più. Esserne ossessionati non funziona nel medio-lungo periodo, e può anzi essere pericoloso.
Dico tutto questo perché di recente sono stato al Mas de la Fam, ristorante di Ravina, presso Trento, per partecipare ad una conversazione a più voci su "tutte le sfumature del pinot grigio" (era questo il titolo) promossa dal black blog Trentino Wine. La sintesi degli interventi, tanti e talvolta accalorati, l'hanno già tracciata sul blog promotore del meeting Augusto Marasca e Angelo Rossi, e alle loro cronache piuttosto fedeli rimando chi volesse farsene un'idea di dettaglio. Io mi limito a sottolineare quel che ho detto qui sopra, a rimarcare l'ossessione - uso nuovamente non a caso questa parola - tipicamente trentina per la varietà ampelografica, per il vitigno. Per cui o si parla di pinot grigio, oppure si cercano i vitigni alternativi, e c'è per esempio chi ritiene debba essere il trebbiano. E questa focalizzazione sul vitigno - credo di averlo già detto in passato - mi pare pervada un po' tutto l'ambiente vitivinicolo della provincia e tutti gli strati sociali della produzione - dalla cooperazione sino al più piccolo dei viticoltori -, e allora più che di Val di Cembra si finisce per parlare di muller thurgau, più che di Isera si discorre di marzemino, più che di Valle dei Laghi si dibatte di nosiola, e poi c'è chi parla di cabernet e di teroldego e di enantio e di chardonnay e di quel che più gli pare il vitigno giusto, la soluzione magica.
Personalmente ritengo che la questione sia diversa, che non alle sfumatire del vitigno si debba guardare, bensì a quelle del territorio, interpretato dai vignaioli che su quelle terre ci vivono. Alla fin fine, a Barolo non parlano mica di nebbiolo, così come a Volnay non parlano di pinot noir o a Corton di chardonnay. Ci sarà un motivo, no?

4 commenti:

  • Anonimo says:
    18 febbraio 2013 alle ore 09:44

    proprio ieri Riccardo Cotarella mi ha rilasciato la seguente dichiarzione:"...il terroir è l’elemento essenziale capace di manifestare le caratteristiche del vino, e ancor più dell’uva. L’uva è semplicemente un mezzo affinché il territorio si manifesti e caratterizzi il vino e renda individuabili le peculiarità di un territorio. Che quest’uva appartenga ad un autoctono o un internazionale poco importa. Importante sarà cogliere il fine di evocare un paesaggio una zona ben definita. Se il vino si ricorderà per la sola uva, e non per il territorio che esprime, sarà un vino senza personalità. Perché tutti potranno fare un Merlot o un Sangiovese, anche in Sudafrica. Ma nessuno può riprodurre le caratteristiche pedoclimatiche delle colline toscane. Che il territorio sia fondamentale lo hanno spiegato bene i nostri amici francesi. Avete mai visto l’etichetta di una loro bottiglia con su riportato il nome del vitigno? C’è solo il territorio: il Médoc, il Pomerol, o ancora Côte d'Or, Gevrey-Chambertin. Mai Cabernet, Merlot, Pinot o Chardonnay e neanche Bordeaux o Borgogna, ma solo i piccoli territori d’origine che si distinguono separatamente anche con la stessa uva».

  • Angelo Peretti says:
    18 febbraio 2013 alle ore 09:56

    Per un problemuccio tecnico, al primo commento è saltata la firma: è di Stefano Gurrera di Cronachedigusto. Grazie!

  • Vittorio says:
    18 febbraio 2013 alle ore 18:17

    Questo è il Trentino, storicamente lo è sempre stato a parte qualche eccezione, pur poco fortunate (Casteller e Lago di Caldaro). L'idea di base è che il territorio trentino influenza le caratteristiche del vitigno coltivato. Ecco perchè è importante citarlo. Ad Isera il Marzemino è diverso da quello dei Ziresi. Il Teroldego Rotaliano è diverso da quello coltivato altrove. Come anche il Cabernet o il Merlot sono diversi. Si tratta di una visione che unisce il terroir con il vitigno. Diversa dalla visione in cui prevale il concetto di zona e terroir come nel Barolo o nella vicina Valpolicella. Nessuna delle due è migliore, sono solo diverse.

  • Angelo Peretti says:
    18 febbraio 2013 alle ore 20:30

    Mi dispiace, Vittorio, ma non sono d'accordo: alla lunga, vince sempre e comunque la visione del terroir. Magari nel breve periodo può non essere così, ma nel medio lungo periodo non ho il minimo dubbio. Del resto, qualche secolo di cultura borgognona o bordolese stanno lì a dimostrarlo chiaramente.

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