[Angelo Peretti]
Sul sito del Corriere Vinicolo non l'avevo visto, ma a segnalarmelo, indirettamente, è stato un produttore maremmano, Gianpaolo Paglia, patron di Poggio Argentiera, vigneron attivissimo sul web. Dico indirettamente perché ha postato il link sulla sua pagina Facebook, e da lì sono andato all'house organ dell'Unione Italiana Vini. Titolo dell'articolo in questione: "Orvieto, il grido disperato dei produttori". Di fatto, viene riportato il testo di una lettera aperta che un gruppo di aziende orvietane - e mica aziende da poco - hanno scritto in merito alla situazione della denominazione, che appare quasi al collasso. Tra i firmatari ci sono colossi come Antinori e Gruppo Italiano Vini (in zona hanno la Bigi) e gente che finisce costantemente sulle guide, come Decugnano dei Barbi, Barberani Vallesanta, Custodi, La Carraia, Argillae e poi ancora Cantina Monrubio, Le Macchie, Euframama, Cirulli, Tenuta Muro Tondo, Titignano. Un piccolo esercito.
Esordiscono dicendo che i prezzi del vino negli ultini tempi hanno visto una qualche crescita, tranne "il nostro Orvieto, che a fronte di una diminuzione della produzione ha addirittura ridotto la propria redditività". Poi sostengono di aver avuto colloqui coi responsabili di "altre importanti realtà" per cercare "d’impostare una politica dei prezzi che tenesse conto delle concrete condizioni produttive". Ma c'è stato invece "un forte ribasso dei prezzi sia dello sfuso, che dell’imbottigliato". Tant'è che "diverse Cantine firmatarie sono state costrette a rivedere contratti già definiti a prezzi più alti del 15%, rispetto alla vendemmia 2010, ribassando i prezzi, sulla base di offerte alternative che i nostri clienti hanno ricevuto da altre cantine produttrici". Eppure per sostenere i prezzi si era perfino ridotta la produzione per ettaro, azione "che doveva essere accompagnata da un fronte unito dei produttori, delle cantine e delle associazioni di settore" per far pagare un prezzo più alto per l'Orvieto. Nulla.
Ora, non conosco la situazione, e dunque non posso capire esattamente verso quali soggetti siano rivolti gli strali dei firmatari, né mi sento ovviamente di esprimere un giudizio sui fatti denunziati. Tuttavia, mi sento di far mio, in linea generale, il commento che Gianpaolo Paglia ha scritto sulla sua pagina Facebook: "Ora, senza conoscere il caso particolare nel dettaglio - dice -, questa è l'ennesima dimostrazione di come non si fa politica di mercato con il controllo dei prezzi e/o delle produzioni (che devono essere controllate sì, ma per motivi di qualità del prodotto)".
Mi accomuna a Gianpaolo una visione liberale dell'economia e del mercato, quella visione che ad esempio ci ha visti - impopolarmente - più volte allineati sul web a contestare la straripante protesta contro la liberalizzazione degli impianti dei vigneti, che l'Unione europea intendeva (e forse ancora intende) praticare. Non è drogando il mercato ed impedendo la libertà d'impresa che si fa l'interesse di chi lavora. Ci vogliono le regole, certo, e occorre rispettarle e farle rispettare e sanzionare chi non le rispetta. Ma le regole, finché si vuole stare dentro l'economia di mercato, hanno da essere liberali, né liberiste, né protezioniste.
Soprattutto, servono i progetti, serve la pianificazione, servono strategie di ampio respiro, serve ripensare al posizionamento di mercato, serve segmentare il mercato e cercare i segmenti su cui far leva
In bocca al lupo, dunque, ai produttori dell'Orvieto. Mi impegno a berne almeno una bottiglia: è poca cosa, ma simbolicamente può starci.
caro Angelo, per uno che ama lo Champagne dire che non si fa politica di mercato con il controllo dei prezzi e/o delle produzioni mi pare un po' grossa. Il CIVC fa esattamente questo, e lo fa molto bene. Che poi questo non basti siamo d'accordo. Il problema principale dell'Orvieto penso che sia, molto banalmente, che non è di moda. Come il Muscadet e il Dolcetto. E quando i prezzi sono bassi è anche più difficile investire in comunicazione, quindi si crea un circolo vizioso.
Maurixio, non sono daccordo. Il mondo dello Champagne prima di tutto fa politica di branding e di posizionamento e poi, di conseguenza, attua politiche di controllo dei prezzi e delle produzioni, tenendo conto delle giacenze, che per lo Champagne, visti i tempi lunghi di maturazione del prodotto, sono imponenti.
Per quando riguarda il fatto che il vino in questione non sia "di moda", be', il problema è proprio questo qui: non si sono fatte politiche di riposizionamento della denominazione. O ci si investe, o non c'è niente da fare.
Lo Champagne quindi si venderebbe perche' notoriamente costa poco? Oppure perche' costa tanto? O forse perche' lo Champagne e' un vino "aspirational" come non ne esistono al mondo, scritto nei libri, celebrato nei film, inchiodato nell'immaginario collettivo come pochi altri prodotti, vino o non vino che siano.
Tra l'altro, proprio la politica di fissare i prezzi in base ai classement dei villaggi, e' stata condannata come illegale dalle UE: non si possono stabilire i prezzi dei beni all'origine mediante organizzazioni che puntino a controllare la domanda e l'offerta per mezzo di pratiche di controllo dei prezzi. E' illegale, si chiama "price-fixing".
Ma se un industria come lo Champagne lo ha fatto per tanto tempo, non si puo' pensare che questo possa funzionare per qualunque vino che non sia Champagne.
Ogni vino deve diventare un po' "champagne" se vuole avere successo, ed e' li' che vanno messe le risorse, non in tentativo di controllo dei prezzi che sono di dubbia legalita' e di nessuna efficacia. Lo si vede esattamente da questa storia, lo dimostra chiaramente.
Pero' in un paese come l'Italia esiste una memoria collettiva e storica, che ci insegna che se si urla tanto, alla fine qualcuno viene in soccorso a togliere le castagne dal fuoco, a riparare dal mercato interi settori che non riescono a starvi dentro, a sovvenzionare.
Se questo e' stato vero in passato, ed e' una delle ragioni per le quali oggi ci troviamo con il terzo debito pubblico al mondo, pur essendo l'ottava economia, ho paura, anzi spero, che oggi non ci sia piu' trippa per gatti.
E' importante cancellare ogni idea e ogni tentazione di cercare di controllare i mercati con poltiche di controllo dell'offerta. E' uscito da poco il rapporto della OIV sul vigneto mondiale: la Cina dal 2000 al 2011 ha aumentato il suo vigneto dell'82%, ed oggi ha oltre mezzo milione di ettari di vigna, 4 paese produttore al mondo. E qui si pensa ancora che il blocco dei vigneti sia la strada da percorrere, come se 100 ettari in piu' o in meno di Orvieto, o di qualunque altro vino, possano cambiare la bilancia. E' la domanda che si deve aumentare, perche' dell'offerta controllata di un vino per il quale non c'e' domanda non importa a nessuno.
...quello che sorprende è che a lamentarsi, in questo caso, siano grandi aziende, oltre a qualche piccola grande firma, naturalmenete, cosa che di solito non è, in altre realtà viticole, invece, sono i piccoli che si lamentano dei sottoprezzi che i grandi imbottigliatori praticano!
...tant'è!.... inoltre, che il quasi esclusivo monovino, solo appunto come in Champagne, se ben tutelato e marketing-orientato riesce a mantenere alto il proprio mercato!
Chissà?
Gianpaolo, come non essere d'accordo con te? Con un'unica, parziale obiezione: è l'Unione europea, attraverso la riforma dell'Ocm vino, che ha (avrebbe) conferito ai consorzi vinicoli la regolazione del mercato. Che tuttavia, e qui torno totalmente d'accordo con te, non può seguire i percorsi stantii del mero controllo dell'offerta.
Il controllo dei prezzi, anche a volerlo fare, non ci si riesce. Il controllo dell'offerta invece si può fare e va fatto, senza esagerare, ma la rigidità dell'offerta è alla base del concetto stesso di DOC, se questa diventa un elastico da bungee jumping tanto vale prendere le DOC e buttarle. Su questo non mi farete mai cambiare idea. vedremo presto cosa comporterà il non aver attuato questa politica sul prosecco. Cosa ha significato per l'Australia lo abbiamo già visto. Che questo controllo dell'offerta poi non basti per valorizzare il prodotto è talmente ovvio da non meritare commenti. Ma è uno degli strumenti.
In Italia esiste un mito, il "guardiamo l'Australia", che si usa ogniqualvolta si vogliono giustificare le pratiche protezioniste in vigore nell'agricoltura europea.
E allora guardiamola, questa Australia e mettiamoci anche la Nuova Zelanda magari. Vigneto italiano dal 2000 al 2011 -15%, Australia + 24%, Nuova Zelanda +168%. Prezzi medi export ad ettolitro: Italia € 183, Australia € 199 Nuova Zelanda € 402 (Francia € 507).
In sintesi, in Italia il vigneto si restringe e prezzi sono tra i piu' bassi del mondo (tra i maggiori paesi esportatori sono davanti solo a Argentina, di poco, e alla Spagna), mentre in Australia, Nuova Zelanda, Cile, i prezzi sono piu' alti e i vigneti aumentano, anche negli ultimissimi anni; ed il tutto senza che sia costato un solo soldo alla comunita e ai contribuenti, al contrario della UE dove il budget pubblico per l'agricoltura e' di oltre €60 miliardi, che sono soldi dalle nostre tasse.
Il concetto di DOC non e' di rigidita' dell'offerta, ma di delimitazione geografica. Le scelte che si fanno nella delimitazione geografica e nella creazione della DOC dovrebbero essere legate alla qualita' della produzione, e non al controllo dell'offerta. Quando invece si assiste ad operazioni come la creazione della Valpolicella e Valpolicella Superiore, del Soave, del Soave Classico, e del Soave Classico Superiore, del Chianti Classico e dei Chianti delle Colline pisane, aretine, fiorentine, senesi, ecc., si capisce che e' proprio lo spirito della DOC che e' andato a farsi friggere, in ossequio alla politica delle prebende. Salvo poi cercare di correre ai ripari mettendo le ganasce all'interno di DOC create e definite male, con un operazione che puo' essere paragonata ai tagli lineari delle spese delle pubbliche amministrazioni, che colpiscono chi lavora bene e premiano chi lavora male, e finiscono poi per essere inutili per gli obiettivi prepostisi.
E' bene forse che si sappia che la Cina ha aumentato del 87% il suo potenziale produttivo negli ultimi 10 anni, ed oggi, con 560.000 ettari di vigneto e' il 4 produttore mondiale, mentre qui si cerca ancora di svuotare il mare con il cucchiaio.
Scusate, ho letto l'articolo forse con un po' di fretta, mi manca la conoscenza specifica dell'industria, e sicuramente una manciata di altri parametri di valutazione; ma al di là del linguaggio volutamente fumoso del testo, ho capito bene che si vorrebbe realizzare un cartello dei venditori per portare il prezzo del prodotto a un aumento concordato?
Pienamente d'accordo con Gianpaolo.
@Gianpaolo, hai dimenticato il famoso ma introvabile "Soave Colli Scaligeri"