La doc è un marchio collettivo

27 agosto 2012
[Angelo Peretti]
Il numero estivo de L'Enologo, il periodico degli enologi e degli enotecnici italiani, è monografico: tutto dedicato al congresso nazionale che s'è svolto in giugno. Ho così avuto modo di leggere le relazioni congressuali. E dalla lettura m'avvedo che una nozione mi pare che stia finalmente entrando, spero in forma definitiva, nel sapere di chi si occupa di vino in Italia: le denominazioni d'origine sono dei veri e propri brand, dei marchi, e come tali vanno considerate, gestite e promosse. Credetemi: non è acquisizione culturale da poco, perché se dicevi una cosa del genere fino a qualche tempo fa (quanto tempo fa? anche qualche mese fa, statene certi) ti prendevano per un visionario.
L'idea della doc (ma quand'è che cominceremo a dire dop invece di doc e docg?) come marchio territoriale collettivo traspare in due distinte relazioni del congresso dell'Assoenologi.
Paolo Piera, direttore di Antesi, società che "opera nella formazione professionale del settore agricolo" (così si autodefinisce sul proprio sito) ha spiegato che "le denominazioni di origine nella Gdo continuano a farla da padrone perché sono vissute dai consumatori come veri e propri brand". Ha aggiunto: "Si tratta di un'anomalia nel mercato del largo consumo. A differenza di pasta o di olio, non è la marca e il nome del produttore a connotare il prodotto quanto la denominazione di origine o la varietà", e questo anche se "esistono i grandi marchi o le grandi famiglie". Bene.
Un concetto analogo l'ha esposto Enrico Zanoni, direttore generale della Cavit, colosso cooperativo del Trentino, affermando che "nel mondo del vino il valore di distintività e di esclusività dei brand aziendali è estremamente basso" e questo per due motivi fondamentali. Uno è "la forte frammentazione dell'offerta". L'altro è "il relativo basso peso attribuito dal consumatore medio alla marca aziendale, il quale invece è guidato nelle sue scelte d'acquisto dal vitigno, dalle denominazioni / territorio e (soprattutto negli ultimi tempi) dalle promozioni". Dice poi Zanoni che, "con una forzatura", le denominazioni d'origine "possiamo assimilarle ai marchi collettivi con una gestione consortile che deve cercare di fare convivere al proprio interno posizionamenti (d'immagine e di prezzo) molto diversi tra loro".
Orbene: entrambi i relatori, pur con sfumature diverse, pur da punti d'osservazione differenti, convergono sull'assimilazione della doc ad un vero e proprio marchio. Concetto nel quale credo totalmente, e al quale cerco d'attenermi. Del resto, le novità normative introdotte dalla nuova Ocm europea del vino e la riforma italiana che ne è necessariamente derivata in materia di attribuzioni di competenze per i consorzi di tutela spingono decisamente in questa direzione. Peccato che non tutti se ne siano accorti. Peccato poi che fra coloro che magari se ne sono accorti, ci sia chi fa finta di niente. Peccato insomma che si sia poco conseguenti. Già, peccato.

2 commenti:

  • gianpaolo says:
    27 agosto 2012 alle ore 21:39

    ti pongo un quesito che credo andrebbe in qualche modo discusso e portato alla luce: la denominazione e' un marchio collettivo, e su questo siamo d'accordo, ma e' un marchio che appartiene ad una collettivita' tutta (es. Montalcino, nel caso del vino omonimo) o solo ai produttori?

  • Angelo Peretti says:
    27 agosto 2012 alle ore 22:11

    Un quesito dalla risposta non facile. Mi verrebbe infatti da dire, di primo acchito, che appartiene ai soli produttori, anche se questi si possono definre un "perimetro variabile", in quanto il numero di coloro che producono e imbottigliano una certa doc non è statico. Tuttavia, se adottiamo l'accezione francese del concetto di terroir, anche le comunità locali "appartengono" alla denominazione, che a sua volta un po' "appartiene" anche a loro. Ci devo riflettere.

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