[Angelo Peretti]
Urca, non avrei mai pensato di essere citato con le mie opinioni sul mondo del vino dai quotidiani di regioni lontane dalla mia. Eppure è accaduto con un servizio di Francesco Margiocco sul glorioso giornale ligure Il Secolo XIX (il 19 d'ottobre). Tema: i diritti d'impianto. Argomento scabroso, oggetti di un batti e ribatti in sede comunitaria, con l'Unione europea che voleva liberalizzare la possibilità di impiantare nuovi vigneti e le associazioni dei produttori italiani (e francesi e altri ancora) che si oppongono. Io sono per la liberalizzazione, ancorché mitigata dalle scelte locali per quanto attiene alle doc, e l'ho scritto altre volte. Tra i produttori (pochissimi, pare) che sono per la deregulation c'è Gianpaolo Paglia di Poggio Argentiera.
Margiocco comincia proprio dall'opinione di Paglia, così: "Il vino - scrive Paglia nel suo blog poggioargentiera.com - comincia letteralmente a scarseggiare», e il prezzo dell’uva «nel Morellino è aumentato del 30%». Per la gioia degli agricoltori, forse, «ma bisognerà chiedersi se quest’allegria contagerà anche i consumatori»."
Poi tocca a me: "Il settore vinicolo però, è la tesi del Copa-Cogeca, si basa su un equilibrio delicato, non può essere dato in pasto al libero mercato. Tesi che non convince un altro sostenitore della deregulation, Angelo Peretti, giornalista e responsabile della comunicazionedidueconsorziditutela di vini Doc. «Dicono che la liberalizzazione porterà con sé l’industrializzazione, ma è da dimostrare. Il sistema italiano, basato sulle quote contingentate, è troppo dirigista»."
Contro la liberlizzazione si schiera invece Costantino Charrere, presidente della Fivi, la Federazione dei vignaioli indipendenti: "Di opposto parere Costantino Charrère, presidente della Federazione italiana vignaioli indipendenti. «Il sistema di regolazione vigente in Italia ha origini storiche, dura da trent’anni e ha prodotto ottimi risultati». Charrère agita lo spauracchio dell’Australia, che negli anni Ottanta sembrava un modello da imitare. «Era il successo vitivinicolo del momento. Ci dicevano che dovevamo fare come loro. Poi loro sono andati in sovrapproduzione, negli ultimi anni a livelli incredibili. E i loro prezzi sono crollati. Oggi il vino australiano che arriva a Londra via nave, nelle cisterne, viene venduto a 10 o 20 centesimi al litro. Non mi pare un gran risultato»."
Il dibattito, dunque, ferve. E ringrazio Francesco Margiocco di avermici coinvolto: è un onore.
Non voglio entrare in facili polemiche sul fatto che sia giusto o meno mantenere un sistema di governance con i diritti.
Un' aspetto che non è stato toccato, oppure mi è sfuggito, è quello dei costi.
Qualche mese fa io ho acquistato dei diritti di impianto pagando dei bei soldoni, questo mi accomuna a quai tutte le aziende vitivinicole, ed è un'aspetto non trascurabile che entra nel bilancio aziendale. Se si deciderà di liberalizzare, le aziende che impianteranno senza diritti avranno una marcia in più rispetto ad altre che hanno investito. D'improvviso ci saranno aziende senza storia, tradizione, legame con il territorio, che saranno avantaggiate rispetto alle aziende "storiche".
Giordano, scusa, ma l'obiezione non la capisco: se da domani mattina (fantascienza) decidessero di abbassare l'Irpef, la manovra sarebbe scorretta perché c'è qualcuno che in passato l'ha pagata più cara? Oppure l'azienda che parte ex novo e che ha aliquote più basse dovrebbe pagare un "avviamento" allo Stato perché altre aziende fondate prima hanno pagato in passato aliquote più alte? E si potrebbero fare altri esempi.
Si ... si, Angelo, quello che dici non fa una grinza, e perciò concordo, però cerca di capire anche chi il giorno prima ha pagato per avere i diritti e il giorno dopo questi diritti vengono liberalizzati. Ero incerto se scrivere o meno il mio commento proprio perchè sapevo che la cosa è, per così dire, ambigua; da una parte chi propende per la liberalizzazione, e in linea teorica ha ragione, dall'altra chi, come me, ha dovuto sborsare dei soldi.
Non so quale potrebbe essere la soluzione ideale, forse non esiste proprio, ma perlomeno si dovrebbe trovare una soluzione transitoria, il meno indolore possibile, tra il prima e il dopo.
Io direi che le aziende dovrebbero cominciare a farli uscire dai bilanci i diritti, proprio in previsione di previste, e prevedibili liberalizzazioni. Per il resto ha risposto Angelo.
Un altra cosa invece mi viene da chiedere: perche'per forza se vengono nuove aziende ad investire le si deve dipingere in modo negativo? (aziende senza storia, tradizione, legame con il territorio). Ma vi fa proprio cosi tanto paura la liberta', le persone che rischiano investendo e pensando al futuro? Come e in quale altro modo questo paese si puo' risollevare dall'asfittica e stagnante situazione economica e sopratutto sociale?
La libertà non fa paura anzi è sempre auspicabile ma quando la competizione è impari la libertà è già minore.
La mia preoccupazione è rivolta a quelle aziende medio/piccole che hanno un legame strettissimo con il territorio perchè è li che la loro storia si tramanda da generazioni, e proprio per questo, generalmente, amano la loro terra.
In questi ultimi tempi, complice anche la crisi, sto riscontrando sempre con maggior frequenza che queste medio/piccole aziende, lentamente ma progressivamente, o sono in grado di aumentare le superfici di conduzione, oppure vengono acquisite da altre aziende maggiori, che molto spesso fanno capo a grosse realtà industriali. Non che questo sia per principio negativo ma sono sicuro che amo di più il mio territorio io, che ci sono da almeno 8 generazioni, che la multinazionale di turno.
Credo che se le cose non cambiano, e segnali non ne vedo, il latifondo ritornerà; sarà un bene, sarà un male .... secondo me è un male!!