Sorpresa: la pergola va bene

15 gennaio 2013
[Angelo Peretti]
A partire dalla metà degli anni Ottanta, i vigneti italiani, dal nord al sud, dalla costa tirrenica a quella adriatica, si sono pressoché omologati: filari, filari, filari. Le vecchie forme di allevamento della vigna sembravano tutte porcherie da rottamare. Nell'epoca dell'infatuazione per i rossi palestrati e i bianchi concentrati e legnosi, in campagna è cambiato quasi tutto. Solo che adesso, soprattutto con le ultime annate caldissime, ci si trova ad aver per le mani uve troppo mature, marmellatose, che portano a vini stucchevoli e quasi imbevibili: o troppo dolci, o troppo alcolici, non c'è niente da fare. E allora si guarda indietro. Si guarda al passato. e ci si domanda se non sia il caso di ripensare a quello che hanno fatto generazioni di vignaioli.
Uno sguardo al passato, e alla tradizione tutta veronese (e trentina, certo) della pergola, l'ha dato una delle più note aziende scaligere del vino: la Masi. Sul numero di fine anno de "Le Venezie", che è il periodico della Fondazione Masi, c'è un articolo dal titolo emblematico: "Che sorpresa! La vecchia pergola dà uve migliori". Raffaele Boscaini, che è il coordinatore del gruppo tecnico dell'azienda di famiglia, ammette che oggi "le condizioni sono cambiate e guardiamo alla pergola con attenzione diversa" e Diego Tomasi, che fa parte del Centro di ricerca per la viticoltura di Conegliano, aggiunge che la sperimentazione condotta a partire dalla torrida estate del 2003 conferma che "le uve sia bianche che rosse ottenute con la pergola sono più ricche in composti aromatici varietali, con le più alte dotazioni di sostanze coloranti e un minor tenore zuccherino rispetto ai sistemi a parete". Spiega Tomasi che "ciò deriva dalla maggior protezione dall'insolazione che il tetto orizzontale consente ai grappoli che si vengono a trovare in un microclima più consono ai metabolismi più fini della maturazione". Ovvio che la pergola va gestita al meglio, perché con questo sistema di allevamento la vigna tende a produrre tanto. Ma un ripensamento è in atto. Finalmente, aggiungo.

15 commenti:

  • Stefano Menti says:
    15 gennaio 2013 alle ore 13:30

    Sono d'accordo cone te Angelo, sul finalmente.

    I ns. vecchi usavano la pergola sia per tradizione sia perché le ns. storiche uve come garganega, durella, rondinella, corvina e molinara, essendo varietali, eprimono meglio i profumi se mantengono la loro freschezza.

    Così come non si era disboscato in parte delle Langhe, e ora dimostrato che i baroli di quelle nuove zone non rendono bene a livello qualitativo/territoriale, lo stesso dicasi della pergola, che in annate calde o fredde protegge il grappolo dal troppo caldo e dalle gelate.

    Quante volte mi sono sentito dire anche di recente in quel di Custoza: hai pergola? Allora non fai qualità.

    Ovviamente le rese devono essere commisurate all'equilibrio vegetativo e radicale della pianta. E il vignaiolo questo lo sa.

  • Mario Crosta says:
    15 gennaio 2013 alle ore 14:18

    Stefano ha detto qualcosa di estremamente importante. L'uva non ha bisogno soltanto di sole, ma anche di ombra quando il sole e' troppo forte, come un neonato, di freschezza, tanto preziosa in epoche tropicali come la nostra. E in ogni territorio, in ogni terreno, in ogni fianco di collina, l'uva va accudita nella sua condizione particolare. Chi generalizza, fa di tutta l'erba un fascio, non certo qualita', come il vignaiolo, appunto, sa. Se guardate la foto della collina di Fontanafredda vi vengono i brividi. Non c'e' un albero, solo uno in cima. Coltivazione intensiva a guyot come il grano nelle pianure dell'Ucraina. Se guardate il castello di Sanct Valentin a Eppan, invece, c'e' un'estesa vigna intera a pergola, dove sotto ci puoi fare picnic, far l'amore con la ragazza, fare un pisocchino. Anche sul lago di Caldaro c'e' la pergola qua e la' e viene un Kalterersee rosato favoloso.

  • giordano says:
    15 gennaio 2013 alle ore 16:01

    Questa primavera sulle colline di Soave impianterò circa un'ettaro di Garganega e l'anno prossimo altrettanto ... ovviamente pergola. In base alla mia esperienza, almeno nel mio territtorio e con la Garganega, ritengo che la pergola sia il migliore sesto di impianto.

  • Mario Crosta says:
    15 gennaio 2013 alle ore 16:28

    Bravo. E bravo Stefano.
    Caro Angelo, che piacere sentire da due che fanno il vino con vitigni stupendi e difficili, bianchi da sogno, come Garganega e Durella, che il sole sorgera' ancora da Est, che possiamo dunque sperare ancora nei vini del nonno e del bisnonno che ci hanno deliziato la gioventu', che hanno suonato la carica dei bersaglieri sul Piave nel 1918. Sara' passata, finalmente, la pazziata dei vini e dei vitigni secondo la moda di Londra o di New York? Sono molto onorato di averli incontrati sul tuo blog, veramente molto onorato. Che Dio gliene renda merito!

  • Anonimo says:
    15 gennaio 2013 alle ore 18:38

    la zona classica del valpolicella ha una vocazione territoriale che trova il suo valore aggiunto nella morfologia del territorio (i muretti a secco) e nell’opera di salvaguardia dello stesso, grazie anche al valore elevato delle uve che a differenza di quelle coltivate in pianura richiede molta più manualità.
    Laddove non ci sono “ostacoli” si sviluppa l’agricoltura estensiva, meccanizzata, intensiva, omologata, e quindi anche più “avvelenata”. Negli ultimi anni è in atto una folle operazione speculativa, che ha penalizzato la zona classica da cui è partito il successo del vino amarone. Dati alla mano, se dal 2003 al 2011 la zona classica è aumentata solo del 30%, nello stesso periodo la zona doc “allargata” è aumentata del 480% superando la superficie della classica ante 2003. La zona della valpantena invece, nel 2009 aveva già raddoppiato le superfici del 2003. Cos’abbiano a che fare molti di quei terroir con l’eccellenza della zona classica nessuno lo sa. Il marketing fa miracoli. Ed ora che si fà? Nuovo PSR per riconvertire a pergola? L’Amarone della Valpolicella è un vino per lo sviluppo del territorio o un territorio per lo sviluppo del vino? Attilio Romagnoli

  • Stefano Menti says:
    15 gennaio 2013 alle ore 19:05

    @Mario se vendo i miei vini senza difficoltà a New York come a Londra, lo devo al fatto che sono i vini del nonno. Stiamo tornando per fortuna indietro dappertutto.

    @d Attilio ultimamente bevo volentieri Valpolicella perché ho iniziato a conoscere dei bravi produttori. Quando prima mi venivano offerti vini che comunque bene si vendono, trovavo difficoltà a bere più di un calice. Staremo a vedere come andrà in futuro.

  • Mario Crosta says:
    15 gennaio 2013 alle ore 19:15

    Romagnoli, comprendo benissimo il suo disappunto. Vorrei darle un po' di carne da mettere al fuoco. Provi a leggere, ma lentamente (senno' ci si perde...) le parole che il prof. Cargnello scrisse piu' di una decina di anni fa sulla base di ricerche iniziate nel 1988 sull'appassimento, qui: http://www.winereport.com/winenews/scheda.asp?IDCategoria=7&IDNews=583. Praticamente, un vino come l'Amarone, oggi, si fa anche in Argentina. Non puo' chiamarsi Amarone, ma le assicuro che e' buono, a volte anche piu' buono degli Amarone "allargati". Noi beviamo vino, non beviamo etichette. Era da prevedere gia' vent'anni fa, il Consorzio doveva prendere provvedimenti gia' vent'anni fa. Guardi che non e' questione di pergola, cioe' non c'entra niente con il tema di questa discussione. E' questione di esportazione di tecniche, di cervelli, di concorrenza a livello mondiale. Quando decideranno di fare un vino come l'Amarone in Cina, a miliardi di ettolitri, il caso Grandarella che dieci anni fa ci stupì tutti verra' in mente a qualcuno che avrebbe dovuto allora muovere subito il culo dalla sedia e non lo fece. Io lo so gia' come andra' a finire e forse anche lei, signor Attilio. Vorrei tanto poter bere con lei una buona bottiglia di Amarone vero a Ferrazze di San Martino Buon Albergo, in quella trattoria aperta soltanto la sera, all'inizio del sentiero che va nel parco sul monte. Rideremmo o piangeremmo? "Ai posteri l'ardua sentenza".

  • Anonimo says:
    15 gennaio 2013 alle ore 22:10

    Mario, dovrebbe vedere il vigneto centenario di custoza che ci tramandiamo da generazioni sui terrazzamenti d'argilla a Colà di Lazise: un aratorio arborato vitato con frassini a sostegno delle vigne. Antiche sottovarietà di castelli romani (trebbiano toscano) la cui buccia prende colorazioni tra il rosa ed il rosso, abbronzate. Uva Cortese aromatica, Albana, la mitica Champagna, Garganega. Ogni pianta è unica, non è un clone. Un orto botanico di diversità. Quanti vigneti obsoleti come questo sono stati sacrificati sull'altare della modernità.

  • Angelo Peretti says:
    15 gennaio 2013 alle ore 23:05

    Bel dibattito, sono molto contento: posso dirlo?

  • Mario Crosta says:
    16 gennaio 2013 alle ore 07:00

    Puoi dirlo forte, Angelo. A Romagnoli posso dire che sempre, passando dall'autostrada, riconosco le zone vinicole limitrofe e sempre guardo con estremo piacere il paesaggio. Confesso che il miglior paesaggio vitato in assoluto, quello che fa piu' piacere alla vista almeno da 40 anni, e' sempre quello della zona del Bianco di Custoza. Quando posso, esco per andare a mangiare in qualche piccola trattoria di paese. Devo confessare che a me il Bianco di Custoza e' sempre piaciuto molto. Mi sono sempre domandato come mai vengono preferiti piuttosto altri bianchi a questo che e' uno di quelli fatti con la maggior intelligenza contadina che ci sia nel nostro Paese. Sapete tutti, infatti, che per fare il Bianco di Custoza ci vogliono tante uve diverse, che non e' facile far maturare pressapoco nello stesso periodo, non e' un monovitigno: Trebbiano toscano, Garganega, Trebbianello (biotipo locale del Tocai friulano), Bianca Fernanda (clone locale del Cortese), Malvasia, Riesling Italico, Pinot Bianco, Chardonnay e Manzoni Bianco. , da soli o congiuntamente. L'ingegno contadino ha distribuito le viti su esposizioni diverse, con orientamenti diversi, pendenze diverse, con sistemi di allevamento diversi, in modo da non sospendere mai le vendemmie e ottenere un vino molto equilibrato, che risente anche meno di tutti gli altri delle differenze d'annata. Ha dunque delle doti di cui andare fieri, un prezzo molto accessibile e sa affrontare bene anche l'invecchiamento, in modo da essere adatto per una gamma molto vasta di portate, anche di carne. Certo, e' impegnativo farlo, ma e' anche molto piacevole da bere. Credo che anche questo andasse scritto. Dixi et animam meam servavi.

  • Mario Crosta says:
    16 gennaio 2013 alle ore 07:03

    "da soli o congiuntamente" si riferisce soltanto alle ultime tre uve. Scusate.

  • Anonimo says:
    16 gennaio 2013 alle ore 10:35

    Puoi dirlo forte Mario, la veduta della zona del Custoza dall'alto del ossario monumentale simbolo delle guerre d'indipendenza risorgimentali, non ha eguali. Il terroir di Custoza è il limite del bacino glaciale del Lago di Garda. Questa non è l'immagine da piccolo mondo antico, è la vera essenza di una sapienza che purtroppo è stata livellata con gli ulimi piani di "sviluppo" rurale. L'enologo è uomo di scienza che conosce il vino, come il medico sa come funziona il corpo umano, ma entrambi non possono dirci niente a proposito dell'anima. Questa risiede nelle più alte sfere e sapora di di-vino.

  • Anonimo says:
    22 gennaio 2013 alle ore 08:08

    una parola sola: dopo 30 anni finalmente posso gioire.
    Paolo Menapace

  • Anonimo says:
    22 gennaio 2013 alle ore 17:39

    Caro Angelo, dal 1975 al 1980,con il dott.Cargnello e le sue classi di Conegliano, con Tullio De Rosa, Bruno Marchioni, Mario Bolla,Paolo Menapace e Altri, in un ettaro di garganega della mia azienda facemmo una macrosperimentazione su diversi ipotetici tipi di allevamento (una trentina circa di ipotesi!). Le tremila viti erano seguite singolarmente, contando le gemme; verificando quanti grappoli produceva ogni ceppo; quanto pesavano i grappoli e i gradi zuccherini degli stessi, esposti a nord o a sud o a est o a ovest della stessa pianta; si incrociavano i dati con tutte le possibili combinazioni. Le tante microvinificazioni venivano giudicate dagli enologi suddetti. Dopo sei anni di tale sperimentazione (direi estremamente seria), all'unanimità (compreso me,che -come sai- ben poco conosco di viticoltura e di enologia) decidemmo di tornare all'antico e cioè alla pergola soavese. Cosa sia successso dopo, io non so; oppure lo sappiamo tutti. Un paio di considerazioni: perchè i giovani-validissimi- prima di lanciare una nuova idea, non si informano adeguatamente? Seconda considerazione (più pesante): perchè ogni professore o sperimentatore pensa di essere l'unico su questa terra e che le opere altrui non contino nulla?
    Nella nostra splendida vitienologia si continua ad andare ancora troppo per la propria strada: non vedo collaborazione sincera.
    A proposito di Pergola Soavese, io mi sono inventato la pergola intelligente.
    Con sempre maggior stima:Giuseppe Coffele

    PS: All'amico Paolo: ti auguro di non gioire solo una volta ogni trent'anni.

  • giordano says:
    22 gennaio 2013 alle ore 18:00

    Bravissimi Paolo e Giuseppe ...la vostra esperienza, che sono onorato di conoscere, spero sia illuminante per le nuove generazioni.

    P.S. all'amico Giuseppe: questa primavera impianto circa 1 ettaro "rigorosamente a pergola" proprio appena più in basso dei tuoi vigneti.

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