[Angelo Peretti]
L'impressione è che per il vino sia come per
la musica negli anni Cinquanta. L'impressione non è mia, è di Matt
Kramer, editorialista di Wine Spectator. La sua è un'ipotesi
affascinante, che mi piacerebbe poter fare mia. Dice, nella sostanza,
che in America la fascia più interessante degli appassionati di vino che
bevono bottiglie d'importazione ormai è diventata quella compresa fra i
25 e i 34 anni: rappresentano un quarto del mercato. E tra di loro c'è
parecchia gente che va alla continua ricerca di qualcosa di nuovo.
D'accordo, è una minoranza, non fa massa critica, ma c'è, ed è
inesauribile nell'attenzione verso nuovi vitigni, nuovi terroir, nuove
esperienze. Un po' come accadeva, appunto, nel mondo della musica negli
anni Cinquanta, quando si stava preparando quella rivoluzione che ha
avuto il proprio manifesto in "Kind of Blue", il capolavoro di Miles
Davis, la stella polare del nuovo jazz, destinato a cambiare per sempre
il panorama musicale. E in quello stesso anno, il "mio" '59, aggiungo
che uscivano anche altri gioielli come "Mingus Ah Um" di Charles Mingus e
"Time Out" del Dave Brubeck Quartet e "The Shape of Jazz to Come" di
Ornette Coleman.
Ecco, parafrasando il titolo del disco di
Coleman, dico che forse sta maturando "la forma del vino che verrà". Ed è
affascinante pensare di vivere questo momento di trasformazione. Che
maturerà col contributo di gente incuriosita dai vini che raccontano
terre e persone. Senza pregiudizi, senza preconcetti. Agli altri, a
quelli che hanno menti meno aperte, resterà in eredità la laccata,
levigata, svenevole piacevolezza dei vini che somigliano alle orchestre
da ballo che andavano in voga, appunto, negli anni Cinquanta.
Dimentichi quello che è considerato il primo disco di Rock'n'Roll della storia : "That's All Right Mama" di Elvis Presley inciso nel 1954 per la Sun di Memphis. Solo che faccio fatica (seguendo il paragone) a capire quali sarebbero tra i produttori, i nuovi fari, i precursori, i pionieri (e le relative pietre miliari nella loro produzione) in grado di rivoluzionare per sempre il mondo del vino, sempre ammesso che il futuro sia nel nostro paese. Chissà, magari è davvero così e magari conosco già di persona i protagonisti di questa trasformazione senza rendermene conto. Sarebbe bello poterlo raccontare ai nipotini :-)
Basta che non si voglia spacciare come innovativo/precursore/rivoluzionario il vino "finto naturale/vero difettato" che purtroppo ancora si cerca di proporre.
@Nic, quel cambiamento avvenne per una reciproca interazione tra pubblico (in quel caso elitario, ma di una pressoché ben definita appartenenza anagrafica) e artisti. Credo sia quello che possa avvenire anche nel mondo del vino.
@Stefano. Concordo, ma anche quei vini, che non mi piacciono, contribuiscono in qualche modo alla riflessione in corso, alla fibrillazione del sistema, all'adrenalina che lo pervade. Penso che siano stati molti i jazzisti dilettanti, magari inascoltabili, che in qualche modo contribuirono al cambiamento che avvenne negli anni Cinquanta.
Io trovo che il vino del futuro sia quello della tradizione. Mai come adesso girando per ristoranti ed enoteche si sente la richiesta di un vino che vien fatto per esser bevuto con i piatti della variegatissima cucina italiana e se pensiamo alle produzioni di tanti anni fa scopriamo che essendo il commercio del vino quasi soltanto "locale", questo doveva essere abbinabili alla cucina del luogo.
Quindi basta innovazioni stravaganti (quanti danni ha fatto l'affaire barrique/vino sveltina/concentrazione a tutti i costi/ vitigni migliorativi) e recupero della territorialità.
Il tutto migliorato con pulizia in cantina, cura del vigneto, rese non esasperate, ne in un senso, ne nell'altro e ricerca della beva, perchè comunque il vino era e rimane un alimento, non una cosa su cui filosofeggiare senza mai finire la bottiglia.
@Il chiaro. La penso esattamente come te: incrociamo le dita e speriamo di averci indovinato.
@ilchiaro @angelo La penso anch'io come voi.
Ieri sera sono stato ad un convegno tenuto dal dierettore vendite Italia di Antinori. C'era anche il professor Calò.
Si è esordito dicendo che soprattutto in Italia si dovrebbero fare vini di territorio legati alle tradizioni. Tutto vero ma... le nostre istituzioni cosa stanno facendo?
Piantare prosecco a Gambellara e merlot in Toscana non sono di certo le giuste manovre per un vino di territorio.