[Angelo Peretti]
Nell'ampio e a tratti accalorato dibattito sull'Amarone, sulla Valpolicella e sulle recenti modifiche apportate al disciplinare di produzione, c’è chi ha sostenuto che, qualunque sia la scelta emersa in fatto di normativa, in ogni caso occorrerà in futuro dare più valore alla produzione di
collina. Può essere, questa, una posizione fondata. Ma, qualora si decidesse di adottarla, va fatta precisa chiarezza fin da
subito. Per non doversi chiedere, tra qualche tempo: collina che? Per non incorrere, insomma, nei problemi e nei dubbi interpretativi che la vecchia versione del disciplinare portava con sé quando parlava, genericamente, di pianura e di fondovalle.
Cito
solo, come promemoria, che cos’è la collina secondo l’Istat: “Zona
altimetrica di collina. Il territorio caratterizzato dalla presenza di
diffuse masse rilevate aventi altitudini, di regola, inferiori a 600
metri nell'Italia Settentrionale e 700 metri nell'Italia
Centro-Meridionale ed Insulare. Eventuali aree di limitata estensione
aventi differenti caratteristiche, intercluse, si considerano comprese
nella zona di collina”. Sicuri che la collina che intendiamo quando parliamo genericamente,
secondo tradizione, sia esattamente quella che emerge da questa scrittura tecnica?
Secondo me, se un giorno in Valpolicella si decidesse di differenziare i vini di collina da quelli di pianura e di fondovalle, bisognerebbe stare molto, ma molto attenti alle parole che si mettono nero su bianco, tenendo conto delle definizioni ufficiali e non delle consuetidini gergali.
Stavo scrivendo che sicuramente è ora di mappare la valpolicella e distinguere i diversi areali. Però mi rendo conto che trovare dei criteri oggettivi sarà difficile.
Speriamo e confidiamo nel buonsenso e nella onestà mentale delle persone interessate. (mi sa che a molti è scoppiata una fragorosa risata!)
Carlo Boscaini
Carlo, non c'è dubbio, è quello che bisognerebbe, in linea del tutto teorica, fare in Valpolicella così come in ogni altra zona di produzione vinicola. Dico in linea del tutto teorica perché non è per niente facile. Con l'introduzione del decreto legislativo 62 e l'individuazione degli enti terzi di certificazione, quel che si scrive in un disciplinare va applicato con rigore, alla lettera. Per cui ogni parola va verificata in termini di effettiva dimostrabilità e applicabilità, e questo in una zona ampia e complessa non è per niente facile. La classificazione dei singoli cru sarebbe la pratica più corretta, probabilmente, ma ci vorrebbero tempi biblici, e accettare il rischio di tanti, lunghi ricorsi giudiziari. Il caso di St. Emilion, dove sembra non si riesca più a mettersi d'accordo con la classificazione dei vigneti, nonostante la straordinaria, storica esperienza bordolese, mi sembra emblematico in questo senso. Credo che solo un tavolo di concertazione nel quale ci si confronti con pazienza possa far scaturire qualche valida proposta, e per valida intendo effettivamente applicabile.