[Angelo Peretti]
L'articolo del Corriere della Sera parla chiaro: siccome per fare la pasta le industrie alimentari italiane utilizzano anche farina d'importazione, il rischio è che scattino sanzioni se si espone il tricolore sulle confezioni. L'allarme pare lo abbia lanciato la Divella, che la bandiera italiana ce l'ha nel logo. "Divella, come altri marchi - scrive il Corriere -, utilizza un buon 30% di grano duro d’importazione estera (proveniente in gran parte da Canada e Ucraina) perché - secondo quanto afferma Aidepi (l’associazione dell’industria del dolce e della pasta italiane aderente a Confindustria) - il consumo italiano di pasta è talmente alto che il nostro Paese è costretto ad importare grano da oltre-frontiera". Succede. Però, "secondo una recente legge in materia di etichettatura di prodotti alimentari licenziata dal Parlamento nel 2011", c'è un problema: "quel vessillo tricolore presente nel logo potrebbe fuorviare il consumatore all’atto dell’acquisto, dato che il grano utilizzato non sarebbe 100% italiano".
Devo dire che ci ho pensato su un po'. Da un lato, capisco la necessità di tutelare il consumatore circa l'origine del prodotto: e che cavolo, sono un consumatore anch'io, e ci tengo. Dall'altro lato, però, c'è un interrogativo che mi frulla in testa: ma da cos'è che discende l'origine di un prodotto se si ha a che fare col mondo alimentare?
Luca Garaglini, vice direttore dell'Aidepi, dice che "l’essenza della pasta italiana sta nella ricetta, cioè nel processo di trasformazione del grano duro in farina". Difficile, a mio avviso, dargli torto. Pensavo a uno dei piatti tipici della mia terra veneta: il baccalà alla vicentina. Credo siano pochi i piatti che segnano così profondamente la cultura alimentare d'un territorio. Chi venisse a dirmi che il baccalà alla vicentina non è tipico, be', lo prenderei per matto. Però se la tipicità dovessimo valutarlo sulla base della provenienza delle materie prime, be', il baccalà alla vicentina sarebbe, da sempre, non tipico, perché il merluzzo essiccato (noi veneti chiamiamo baccalà lo stoccafisso) viene dalla Scandinavia, altroché. Tipica è la ricetta, la modalità di preparazione, non l'origine dell'ingrediente.
D'altro canto, ha mica torto neppure Sergio Marini, presidente della Coldiretti, quando - torno a citare il Corriere - rivendica la necessità di una maggiore trasparenza nei confronti del consumatore che "ha il diritto di veder segnalato da dove arriva il grano duro utilizzato dalle aziende".
Ordunque, come cavarsela? Soprattutto, come evitare l'ennesimo autogol tricolore? Non stupiamoci se in America considerano la pizza una loro invenzione: noi andiamo sempre in ordine sparso, e allora addio vantaggi del "made in Italy".
A mio avviso, hanno ragione tutti. Chi dice che italiano è (soprattutto) il processo di lavorazione e chi chiede piena trasparenza. Davvero sono posizioni così inconciliabili?
Coraggio, c'è sempre la pasta Sgambaro. E poi bisgna anche dire che con gli acquisti all'estero di grano duro le industrie pastarie nazionali, per non far nomi, hanno distrutto la produzione nazionale (600 mila ettari in meno in 15 anni, se non ricordo male, visto che immettevano il grano straniero sul mercato al momento della raccolta del nsotrano, facendo crollare i prezzi